IL GRUMO DI MALAFFARE DELLE “CITTA’ TRANQUILLE”
Alla fine di febbraio di quest’anno, Il Corriere della Sera pubblica numerosi articoli su una inchiesta del Sostituto Procuratore della Repubblica di Catanzaro che ipotizza reati gravissimi commessi in Basilicata da alcuni magistrati lucani, alti gradi delle forze dell’ordine, un senatore, un sottosegretario, altri politici locali, dirigenti pubblici, costruttori, direttori di Banche, massoni e malavitosi vari.
Ora scoppia lo scandalo ma da diversi anni i fatti, cioè la gestione delle ASL da parte di un Dirigente marito di un magistrato, la costruzione di un Villaggio Turistico su area Demaniale con i finanziamenti pubblicu, i prestiti di favore di una banca, le indagini affossate e gli investigatori trasferiti, erano noti a chi non voleva vedere.
Poi qualcuno cerca di approfittarne per coinvolgere anche il magistrato Woodcock, odiato da affaristi e corruttori vari, ma l’operazione non riesce. A tal proposito, leggete tra i tanti articoli interessanti che seguono, anche quello di Giuliano Colonna, lo stesso giornalista che ha scritto a dicembre scorso l’articolo per DIARIO sull’Ipermercato Zamparini a Benevento.
IL CORRIERE DELLA SERA
26 febbraio 2007
Affari segreti, maxi inchiesta in Basilicata
GIUDICI, POLITICI, FUNZIONARI PUBBLICI SOTTO ACCUSA.
«Corruzione su sanità, turismo, finanza»
CATANZARO – I danni si stanno quantificando in Calabria, ma l’epicentro di questo terremoto è in Basilicata. Ed è il sisma più grave dell’ultimo quarto di secolo, dopo quello del 1980, perché è il più terribile esempio della rottura del «patto» tra cittadini e istituzioni, tra governati e governanti, senza il quale non si va da nessuna parte. Il mito della Lucania Felix, semmai avesse un fondamento, è finito. Non regge più. Nemmeno come espediente mediatico. Lo dicono i fatti sui quali sta indagando la procura di Catanzaro, che ha messo sotto inchiesta i vertici della magistratura lucana, alti gradi delle forze dell’ordine, politici e funzionari pubblici, tutti indagati per gravissimi reati: truffa e corruzione, anche in atti giudiziari, falso e abuso d’ufficio, anche a fini patrimoniali, appropriazione indebita. Accuse che suonano ancor più pesanti e incredibili perché rivolte, a vario titolo, a Giuseppe Galante, procuratore della Direzione distrettuale antimafia di Potenza e al suo vicario, Felicia Genovese. A Giuseppe Chieco, procuratore capo di Matera, a Iside Granese e Rosa Bia, presidente e giudice del tribunale di Matera, e all’ex colonnello dei carabinieri Pietro Gentili, in qualità di capo della sezione di polizia giudiziaria della procura di Potenza. E poi all’ex presidente della giunta regionale lucana, oggi sottosegretario allo Sviluppo economico, Filippo Bubbico (Ds), e all’ex assessore regionale alla Sanità, oggi presidente della giunta, Vito De Filippo (Margherita). Insieme con loro, una sfilza di funzionari pubblici, dagli uffici comunali e provinciali a quelli ministeriali. L’inchiesta, condotta da Guardia di Finanza, Polizia e Carabinieri, è coordinata dal pm Luigi De Magistris, che da un po’ di tempo, va detto subito e magari a futura memoria, ha il «privilegio» dell’attenzione di decine di parlamentari, impegnati in continue interrogazioni su di lui, nonostante, o forse proprio perché, le sue inchieste non abbiano finora trascurato né la destra, né la sinistra.
I principali temi d’indagine sono tre e riguardano le Asl lucane, la Banca popolare del Materano (del gruppo Banca popolare dell’Emilia Romagna) e i megavillaggi turistici, in particolare «Marinagri», che stanno sorgendo sulla costa jonica lucana con il contributo di fondi pubblici, erogati dal Cipe (Comitato interministeriale programmazione economica), per centinaia di milioni di euro. Il filone-sanità viene aperto in seguito alla denuncia dell’ex direttore dell’Asl di Venosa, Giuseppe Panio, che accusa Bubbico e De Filippo di averlo ingiustamente «licenziato» per far posto a Giancarlo Vainieri, considerato vicino a Bubbico e ai Ds. Il pm è Felicia Genovese, che per due volte chiede l’archiviazione, non accolta dal gip di Potenza, Iannuzzi. Poiché però Genovese è anche la moglie di Michele Cannizzaro, che verrà nominato direttore dell’ospedale San Carlo di Potenza dagli stessi politici per i quali il pm Genovese aveva chiesto l’archiviazione, si fa strada il dubbio che la vicenda non sia solo il frutto di una sequela di coincidenze. E infatti secondo gli investigatori di Catanzaro la faccenda non è da archiviare, ma, al contrario, merita. La Banca del Materano, invece, inguaia il presidente del tribunale di Matera, Iside Granese. Secondo l’accusa, l’istituto di credito è governato da «un comitato d’affari occulto e parallelo, che gestisce in maniera clientelare il credito a discapito dell’azionariato e dei risparmiatori e assicura ai clienti più privilegiati guadagni eccezionali e perdite rimborsate». Un esempio «forte» è proprio quello del giudice Granese, che ottiene un mutuo di 620 mila euro per vent’anni al tasso fisso del 3 per cento con una garanzia di 1.240.000 euro su un immobile che ne vale appena 150 mila (tra l’altro acquistato due mesi prima di stipulare il mutuo) e una linea di credito che raggiunge i 430 mila euro con la sola garanzia della propria firma.
E tuttavia Granese tratta cause che coinvolgono la banca e il suo ex presidente Attilio Caruso. E in una di queste pronuncia il fallimento, per un credito di circa 50 mila euro, della società Anthill, di Nicola Piccenna, che poi è diventato il suo «grande accusatore». Mentre l’altro giudice, Rosa Bia, benché cognata del direttore della società di riscossione tributi «Ritrimat», controllata dalla Banca del Materano, tratta cause in cui è parte la stessa Ritrimat. Le denunce per queste vicende sarebbero state sistematicamente archiviate dal procuratore Chieco, che avrebbe agito alla stessa maniera anche per le denunce contro l’ex colonnello Gentili e il procuratore Galante, relative a Marinagri. E questo perché Chieco, oltre a essere interessato a una villetta di Marinagri, temeva che i colleghi di Potenza potessero «ricordarsi» di avere tra le mani una ventina di procedimenti a suo carico, risalenti a quando era pm a Bari.
Carlo Vulpio
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IL CORRIERE DELLA SERA
26 febbraio, 2007
I RAPPORTI DEGLI INQUIRENTI
E il pm antimafia indaga sul marito direttore dell’ Asl
CATANZARO – È sull’ intreccio tra massoneria deviata e sanità l’ ultima inchiesta avviata dalla Procura della Repubblica di Catanzaro. Uno stretto rapporto che tiene legate vicende che coinvolgono Calabria e Basilicata. Tra le tante storie finite nel fascicolo del pubblico ministero Luigi De Magistris, c’ è quella che riguarda Michele Cannizzaro, direttore generale dell’ Asl «San Carlo» di Potenza. Cannizzaro è un medico sposato con Felicia Angelica Genovese, sostituto procuratore presso la Dda del capoluogo lucano. Originario della provincia di Reggio Calabria, Cannizzaro ha un passato discusso. Scrivono i carabinieri di Calanna (Reggio Calabria), il 3 ottobre 1993: «Nella località Petile di Calanna, presso l’ abitazione di Cannizzaro Michele, in data 13.5.1993 si è consumato un lauto pasto cui hanno partecipato alcuni esponenti legati alla criminalità organizzata del Reggino». In una informativa della Dia di Salerno dell’ 8 giugno 2000 e del 30 giugno 2000 emergono poi contatti telefonici tra Cannizzaro e alcuni boss del Reggino. Dal cellulare intestato a Cannizzaro, e «in uso anche a Felicia Genovese», partono telefonate indirizzate a Carmelo Domenico Tripodi, boss legato alla cosca di Mico Tripodo, uno degli ultimi padrini della ‘ ndrangheta, ucciso nel carcere di Poggioreale dagli uomini di Raffaele Cutolo. Cannizzaro intratteneva rapporti telefonici anche con Leonardo Garreffa, esponente della ‘ ndrangheta della Locride, residente ad Ardore, il paese dove è nata la Genovese. Episodi e circostanze che potrebbero compromettere la candidatura del magistrato a consulente esterna della commissione bicamerale antimafia, in quota An. In passato Cannizzaro è stato accusato dal pentito Gennaro Cappiello di essere il mandante dell’ omicidio dei coniugi Giuseppe Francesco Gianfredi e Patrizia Santarsiero. Accusa mai provata e archiviata. Ad indagare su quel duplice delitto era stata la moglie Felicia. L’ attuale direttore generale dell’ Asl di Potenza e la moglie magistrato si ritrovano però al centro di un’ altra storia che riguarda l’ omicidio di Elisa Claps, la ragazza di 16 anni scomparsa a Potenza nel 1993 e mai più ritrovata. Ad indagare su quella sparizione, in un primo momento, fu proprio la Genovese. Secondo quanto affermato dal pentito Cappiello il papà di Danilo Restivo, l’ unico indagato per quella vicenda, si rivolse a Michele Cannizzaro, suo amico, affinché facesse sparire il corpo della ragazza. Cannizzaro, racconta il pentito, si sarebbe rivolto ad esponenti della criminalità calabrese affinché provvedessero a far sparire il corpo della sedicenne nel cantiere della costruenda scala mobile di Potenza. Accuse mai provate e archiviate.
Macri’ Carlo
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IL CORRIERE DELLA SERA
26 febbraio 2007
Solidarietà di Fini al parlamentare: «Certo della sua estraneità ai fatti»
CORRUZIONE BASILICATA, 4 I MAGISTRATI INDAGATI
Il procuratore Giuseppe Galante e il senatore di An Emilio Buccico,
chiamati in causa dalle indagini, smentiscono ogni coinvolgimento
CATANZARO – Sarebbero quattro i magistrati lucani sui quali sta indagando per competenza territoriale la Procura della Repubblica di Catanzaro. E tra le persone destinatarie di avvisi di garanzia ci sarebbe anche un senatore di An, Emilio Nicola Buccico. Un altro nome eccellente, dunque, dopo quello del presidente della giunta regionale Filippo Bubbico, dei Ds. L’inchiesta, la cui esistenza è stata rivelata lunedì mattina dal Corriere della Sera, si svilupperebbe su quattro filoni di indagini e riguarderebbe rapporti fra esponenti del mondo giudiziario, politici, rappresentanti delle forze dell’ordine e funzionari. Le indagini sono coordinate dal sostituto procuratore Luigi de Magistris.
I REATI – E in procura a Catanzaro viene mantenuto il massimo riserbo. Gli indagati, nei confronti dei quali le ipotesi di reato vanno da abuso d’ufficio a corruzione in atti giudiziari, ad appropriazione indebita e truffa, sarebbero tredici in tutto. Tra loro i quattro magistrati: i procuratori della Repubblica di Potenza, Giuseppe Galante, e Matera,Giuseppe Chieco; il sostituto procuratore della Repubblica di Potenza Felicia Genovese ed il presidente del Tribunale di Matera, Iside Granese. Le indagini riguarderebbero una serie di illeciti che sarebbero stati commessi nei settori bancario, turistico e sanitario. L’inchiesta farebbe riferimento a rapporti tra esponenti della magistratura, del mondo politica della Basilicata e della sanitá.
LE SMENTITE – Gli indagati si sono affrettati a negare ogni addebito. «Affermo la mia più assoluta estraneità ai fatti riferiti ai tre temi di indagine» ha detto all’agenzia Ansa il Procuratore della Repubblica di Potenza, Giuseppe Galante. «Come persona, e come procuratore della Repubblica di Potenza – ha aggiunto Galante – sono assolutamente estraneo a qualsiasi trama occulta, o a qualsiasi gioco di potere, che abbia interessato la sanità in Basilicata, o la Banca popolare del materano, o i megavillaggi turistici, in particolare la società “Marinagri” con sede in Policoro (Matera)». Anche il senatore di An Emilio Buccico, che secondo le agenzie di stampa potrebbe essere proprio il senatore chiamato in causa dall’inchiesta, ha detto di non sapene nulla. Il nome di Buccico come possibile indagato emerge dal fatto che il senatore del centrodestra è stato componente del Consiglio Superiore della Magistratura e, dal 1997, presidente per diversi anni del Consiglio nazionale forense. Nelle settimane scorse, Buccico è stato designato dalla Casa delle libertà a candidato sindaco di Matera, nelle elezioni in programma nella prossima primavera.
SOLIDARIETA’ DI FINI – In difesa di Buccico si è espresso il leader di An Fini che in una nota ha scritto: «Esprimo solidarietà al senatore Emilio Nicola Buccico a nome mio personale e di tutta Alleanza nazionale per le notizie trapelate, ancora una volta a mezzo stampa, di un suo presunto coinvolgimento nell’inchiesta della Procura della Repubblica di Catanzaro. Con la certezza della sua assoluta estraneità ai fatti imputatigli, colgo l’occasione per rinnovargli la mia stima».
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Il CORRIERE DELLA SERA
26 febbraio, 2007
PROGETTO MARINAGRI
Interessi e amicizie nel villaggio vacanze costruito sul demanio
DAL NOSTRO INVIATO CATANZARO – E c’ era questo e c’ era quello. E tutti insieme cenavano e pranzavano, e organizzavano feste e incontri esclusivi. Per esempio, il procuratore di Potenza, Giuseppe Galante, e l’ ex presidente del tribunale di Matera, Lazazzera. Entrambi grandi proprietari terrieri, oltre che magistrati. E guarda caso entrambi «vicini» a Marinagri, il super villaggio delle vacanze paragonato a Venezia perché costruito tutto sull’ acqua. Galante, vicino fisicamente, poiché le sue proprietà sono confinanti con il super villaggio. Lazazzera vicino in tutti i sensi, perché socio di Marinagri. Non mancavano quasi mai nemmeno Giuseppe Chieco, procuratore di Matera, Felicia Genovese, pm antimafia di Potenza, e Pietro Gentili, ex colonnello dei carabinieri che guidava la sezione di polizia giudiziaria della procura di Potenza. Anche loro ne avevano motivo. Chieco, come titolare del procedimento penale su Marinagri, doveva pur acquisire una conoscenza ravvicinata di ciò che era oggetto delle proprie indagini. Genovese, anche lei titolare di un procedimento su Marinagri, ma per un presunto tentativo di estorsione da parte di politici ai danni del titolare del super villaggio, per le stesse ragioni investigative di Chieco. E Gentili per un sacco di motivi: prima di tutto, poteva considerarsi tra i «soci fondatori» di Marinagri per averci investito 100 mila euro cash, poi perché era diventato responsabile della sicurezza del villaggio, e infine perché da carabiniere era stato delegato dal pm Genovese a compiere alcuni atti d’ indagine su Marinagri. Tutti ospiti di Vincenzo Vitale, presidente di Marinagri Spa, compreso il generale Di Napoli, ex comandante dei Carabinieri della Regione Basilicata. Che male c’ era, del resto, a ritrovarsi lì, nel villaggio galleggiante, proprio nel punto in cui le acque del fiume Agri, dove una volta si allevavano cozze e anguille, si mescolano a quelle del mare Jonio? Dopo tutto, fino alla prossima inondazione c’ è tempo. La mappa-calendario del Sistema informativo delle catastrofi idrogeologiche elaborata dal Cnr dice che qualche vacanza tranquilla, lì, ancora si può fare. I problemi, adesso, sono altri. E vengono tutti dalla procura di Catanzaro. Non tanto per la condanna subita in primo grado (in appello è stato assolto) da Vincenzo Vitale per il tentato omicidio del senatore Decio Scardaccione (che venne gambizzato, sostengono gli investigatori, per vicende connesse alla proprietà dell’ area in cui si voleva realizzare il villaggio), quanto per l’ ipotesi, avanzata dai magistrati calabresi, che Marinagri sorga su area demaniale, cioè pubblica, cioè di tutti. Si sospetta insomma che, attraverso la rocambolesca apparizione-sparizione di planimetrie e mappe catastali e altri documenti, ciò che era demanio sia diventato proprietà di Marinagri Spa. Un requisito importante, questo, per ottenere i quattrini pubblici del Cipe e per concludere l’ accordo di programma con la Regione Basilicata, guidata dal centrosinistra, il cui presidente Filippo Bubbico è oggi al governo come sottosegretario allo Sviluppo economico. Quell’ accordo di programma, che quando venne stipulato fu molto contestato e finì nelle mani del Commissario europeo all’ Ambiente, secondo i giudici presenta molte falle. Non solo violerebbe le norme a tutela delle aree protette, ma sarebbe anche stato indebitamente finanziato dal Cipe.
Vulpio Carlo
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Il CORRIERE DELLA SERA
27 febbraio 2007
I magistrati e i politici sotto accusa: attacchi mediatici,
infondati i reati contestati
BASILICATA, LA PISTA DEI SOLDI «FAVORI DI UNA BANCA AI GIUDICI»
Catanzaro: 15 indagati, tra cui la moglie di Follini
CATANZARO – Giudici, politici, banche, megavillaggi turistici e sanità. Sono i protagonisti dell’inchiesta della procura di Catanzaro che sta facendo tremare la Basilicata e che finora conta quindici indagati. Secondo l’accusa, alcuni episodi sono rivelatori di come le persone coinvolte riuscissero a «fare sistema».
Eccoli.
La nota del procuratore capo di Matera, Giuseppe Chieco, è chiara. Quel comandante dei carabinieri, chi si crede di essere? Il capitano Bellodi de “Il giorno della civetta”? Lui è soltanto il tenente Pasquale Zacheo della Compagnia di Policoro, Matera, che assieme al suo «gemello» in uniforme, tenente Valerio Palmieri, si permette di non mollare la presa nelle indagini su Vincenzo Vitale (presidente di Marinagri Spa, tra i 15 indagati nell’inchiesta della procura di Catanzaro) e il suo supervillaggio da 400 miliardi di lire sulla costa jonica lucana. E allora Chieco «chiede formalmente» ai due carabinieri «di astenersi per il futuro dall’esercitare di propria iniziativa attività investigativa per i delitti contro la pubblica amministrazione». I due militari continuano a fare il proprio dovere e quando chiedono al procuratore copia della richiesta di archiviazione proposta dalla procura di Matera per l’inchiesta Marinagri, Chieco si arrabbia. E convoca il comandante provinciale dei carabinieri: quei due vanno puniti, dice, perché «vogliono controllare e verificare l’operato del pm». Il comandante provinciale ascolta, ma non punisce nessuno, perché Zacheo e Palmieri hanno agito secondo la legge. Ma, sarà una coincidenza, dopo un po’ la coppia viene divisa, con Palmieri trasferito a Melito Porto Salvo, Reggio Calabria.
Gli atti dell’inchiesta, compresa l’illuminante consulenza tecnica dell’architetto Pietro Cozzolino e dell’ingegnere Salvatore Magrì, passano a Catanzaro. I due tecnici bocciano il «progetto Marinagri» da tutti i punti di vista e censurano la giunta regionale lucana presieduta da Filippo Bubbico (Ds, ora sottosegretario allo Sviluppo economico) per «le scelte progettuali non conformi al Piano territoriale paesistico». E poi, in maniera ancora più esplicita: «Questa condotta – affermano i consulenti – è la riprova di una decisa volontà politica di dar corso all’iniziativa a ogni costo, adeguando ove necessario quelle norme che risultassero d’intralcio». Ora sì che possono arrivare i soldi pubblici erogati dal Cipe. Occorreva che tutte le carte risultassero «a posto».
Com’erano «tutte a posto» le carte riguardanti il demanio, il regime delle acque e le aree sottoposte a tutela ambientale. Carte taroccate, secondo l’accusa, in tutti i modi che la fantasia, l’estro, e il potere istituzionale amministrato possano consentire: si va dal faldone trovato inspiegabilmente vuoto ai documenti nascosti in auto e a casa, dall’hard disk espiantato dal pc comunale fino alla mutazione dei colori delle mappe. Fatti di cui dovranno rispondere Elisabetta Spitz (moglie di Marco Follini) e Giuseppe Pepe, dell’Agenzia del Demanio di Roma e Matera, Antonio Trevisani, dell’Ufficio tutela delle acque di Matera, e Felice Viceconte, dirigente dell’Ufficio tecnico comunale di Policoro.
Sul versante finanziario, la fanno da protagonisti la Banca popolare del Materano (gruppo Banca popolare dell’Emilia Romagna) e i suoi dirigenti, tra i quali spicca per attivismo e attenzioni particolari nei confronti dei magistrati l’ex presidente, Attilio Caruso. Il quale fa quel che fa anche a titolo gratuito e, parole sue, per il prestigio e l’immagine della banca.
Ma è nella concessione di mutui e affidamenti che Caruso e la Banca del Materano sembrano dare il meglio di sé. Erogano un mutuo di 620 mila euro al 3 per cento e un fido di 150 mila euro poi sconfinato a 430 mila, con garanzia della sola firma, a Iside Granese, presidente del tribunale di Matera. Deliberano un fido di un milione di euro alla società «La Capannina», costituita appena dieci giorni prima e amministrata da una signora che è in stretti rapporti con l’ex colonnello dei carabinieri Pietro Gentili, capo della sezione di polizia giudiziaria della procura di Potenza. Il fido da un milione di euro poggia su un terreno valutato 23 mila euro e dato in garanzia ipotecaria per due milioni. Ipoteche e atti notarili che il pm Luigi De Magistris esaminerà uno per uno.
La Banca del Materano, infine (che ieri ha parlato di «accuse fuorvianti e non veritiere contro di noi»), è anche socia di una società di cartolarizzazione, «Mutina», 10 mila euro di capitale sociale, alla quale cede per 25 milioni di euro crediti che hanno un valore quasi doppio. I magistrati vogliono capire se si tratta di un artificio per evadere il fisco e ingannare i soci.
Intanto, il procuratore Chieco afferma di non essersi mai occupato di Marinagri e di non aver «mai comperato alcuna villetta presso il villaggio turistico», il giudice Granese considera le accuse «infondate», il procuratore Galante e il sottosegretario Bubbico rivendicano la propria «assoluta estraneità», mentre il pm Genovese parla di «attacchi mediatici». L’inchiesta prosegue. E promette nuovi sviluppi.
Carlo Vulpio
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REPUBBLICA.IT
27 febbraio 2007
La Polizia Tributaria nelle abitazioni e negli Uffici degli indagati.
Convocato il senatore di AN Buccico. Tre i tronconi dell’inchiesta.
BASILICATA, PERQUISIZIONI NELLE CASE DEL GIUDICI
SIGILLI AL VILLAGGIO TURISTICO DELLO SCANDALO
Il pm accusato GEnovese scrive a Napolitano: “Mandate gli ispettori a Potenza”
CATANZARO – Hanno rovistato nei cassetti di casa e dell’ufficio; hanno cercato le prove dello scandalo. Gli uomini della Tributaria hanno bussato presto alla porta di casa del sostituto procuratore di Potenza Felica Genovese. L’accusano di aver procurato un “vantaggio patrimoniale” al marito: il 31 marzo, davanti ai collerghi di Catanzaro, il pm dovrà difendersi dall’accusa di abuso d’ufficio. Lei però non ci sta e scrive al presidente della Repubblica: chiede ispettori alla Procura di Potenza. Ipotizza un complotto orchestrato da “personaggi interni ed esterni” alla magistratura.
Perquisizioni nelle case dei giudici. Stamane, uomini della Guardia di Finanza hanno perquisito anche le case e gli uffici degli altri tre magistrati indagati per lo scandalo: i procuratori di Potenza Giuseppe Galante e Matera Giuseppe Chieco e il presidente del Tribunale di Matera Iside Granese. Perquisite le abitazioni anche degli altri indagati. Solo l’appartamento del senatore di An Nicola Buccico non è stato visitato: in qualità di parlamentare vanta prerogative che gli permettono l’immunità , ma resta accusato di abuso d’ufficio e favoreggiamento personale.
I tre tronconi dell’inchiesta. L’inchiesta segue tre tronconi, quello che riguarda la realizzazione del villaggio turistico Marinagri di Policoro; il filone “sanità” che coinvolge direttamente il comportamento del pm Genovese e il terzo, quello delle banche, in cui compare il nome del presidente del Tribunale di Matera Iside Granese.
Sigilli al villaggio turistico. Stamane i Carabinieri e la Guardia di Finanza hanno messo i lucchetti al villagio turistico Marinagri, un mega complesso che comprende strutture alberghiere e sportive, villette e un porticciolo per un valore complessivo di 200 milioni di euro. La Procura di Catanzaro ipotizza che il procuratore di Matera Giuseppe Chieco abbia chiuso un occhio sui presunti illeciti nella realizzazione del villaggio.
Sanità e abusi. Al centro del secondo filone dell’inchiesta, quello sulla sanità, c’è il sostituto procuratore di Potenza Felicia Genovese. Ha richiesto di archiviare un procedimento in cui vantava interessi il marito Michele Cannizzaro nominato poco dopo direttore generale dell’Azienda ospedaliera San Carlo di Potenza. Ma il pm ribatte con un telegramma a Giorgio Napolitano presidente del Consiglio superiore della magistratura. Chiede un’immediata ispezione alla Procura di Potenza.
La banca, il giudice e il senatore. Infine c’è il terzo filone, quello bancario in cui al centro dell’inchiesta siede il presidente del Tribunale di Matera Iside Granese. Secondo l’accusa, il magistrato avrebbe ottenuto un mutuo a condizioni più che vantaggiose dalla Banca popolare del Materano. In cambio, il giudice avrebbe assicurato l’impunità all’allora presidente del Cda della Banca popolare del Materano, Attilio Caruso. Il senatore di Alleanza Nazionale Nicola Buccico, componente negli anni scorsi del Consiglio Superiore della Magistratura, avrebbe garantito la copertura ai magistrati indagati ed in particolare al Presidente del Tribunale di Matera Iside Granese.
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DIARIO 23 giugno 2006
Il magistrato e le bolle di sapone
di Gianni Barbacetto e Giuliano Colonna
Henry John Woodcock, il pubblico ministero che a Potenza ha fatto scoppiare il Savoiagate, ha fama di condurre indagini zeppe di vip che però non reggono al vaglio dei processi. È vero? Ecco tutte le sue inchieste e come sono andate davvero a finire
NON ANDAVANO PER IL SOTTILE.
È scoppiato il Savoiagate. Ma gli affari di Vittorio Emanuele chiamano in causa anche An, per il coinvolgimento, secondo l’accusa, del portavoce di Gianfranco Fini, Salvo Sottile e del suo segretario, Francesco Proietti Cosimi. Ma già sotto accusa sono le intercettazioni, il loro «abuso», la «bulimia» dei magistrati. Primo fra tutti Henry John Woodcock, che ha condotto le indagini e chiesto gli arresti.
«In un Paese normale avrebbe già cambiato mestiere», ha sentenziato Gianfranco Fini. «È un pazzo», aveva sintetizzato Maurizio Gasparri. «Fa le indagini con la Guida Monaci», ripetono i suoi detrattori: accusandolo di voler fare a ogni costo il castiga-vip. Lui, Henry John Woodcock, magistrato alla procura di Potenza, non risponde. Per avergli dato del pazzo, l’ex ministro Gasparri è stato rinviato a giudizio per diffamazione aggravata. Quanto alla Guida Monaci, i sostenitori ribattono: è colpa sua se, in questo Paese, dovunque indaghi con serietà, perfino a partire dalla ultraperiferica Potenza, finisci per incappare in una folla di politici, portaborse, faccendieri, giornalisti di grido, uomini della tv, soubrettes, ambasciatori, teste coronate e cotonate? In un Paese normale, del resto, dopo l’esplosione di uno scandalo come il Savoiagate ci sarebbe stata un’epidemia di dimissioni, a prescindere dalla rilevanza penale delle accuse. In Italia, invece, c’è stata solo l’epidemia di proteste anti-intercettazioni.
A proposito: ecco un altro cavallo di battaglia della nutrita pattuglia dei nemici di Woodcock (da Francesco Cossiga a Bruno Vespa, da Ignazio La Russa a Vittorio Feltri): il magistrato di Potenza offrirebbe tutt’al più materiale per la sociologia e per la storia del costume, ma con ben scarsi esiti giudiziari. Ma è vero? Le sue indagini sono davvero una serie di fallimenti?
L’ultima inchiesta, che ruota attorno al gruppo di Vittorio Emanuele di Savoia, di reati ne almanacca un’intera collezione: corruzione, concussione, truffa, falso ideologico, istigazione alla corruzione, riciclaggio, minacce, favoreggiamento, associazione a delinquere, sfruttamento della prostituzione… Con tangenti pagate per ottenere licenze di videopoker. Con la Rai ridotta a un set del Grande Bordello e Porta a porta «confenzionata su misura» (come ammette Vespa) dei politici ospiti. Con un partito, An, erede di un movimento fascista ma dalle mani pulite, che si credeva «diverso» e si scopre ormai assimilato (dopo l’estate dei Furbetti rossi, sta arrivando l’estate dei Furbetti neri). Con una P2 di riciclo (di quella classica, Vittorio Emanuele aveva la tessera 1621) che vende titoli nobiliari fasulli e minaccia di morte il direttore di Novella 2000 che aveva rivelato il trucco. Ma anche con inquietanti squarci sul mondo degli spioni: con poliziotti, carabinieri, uomini dei servizi segreti che tradiscono la Repubblica mettendosi al servizio di un re senza regno ma con ottimi affari. Truffe da film, personaggi vicini alla mafia, un maresciallo del Sisde che ricatta il suo capo, un sedicente «agente Polifemo», Massimo Pizza, capo di un fantomatico «ufficio K» del Sismi (quello da cui partivano, anni fa, le rivendicazioni della Falange armata). E quell’Achille De Luca, faccendiere e uomo dai mille business: tra questi, il documentario, di cui era produttore, che stavano girando a Nassiriya nel momento della strage di italiani.
Come finirà il Savoiagate lo sapremo solo tra qualche anno. Tra qualche settimana, intanto, sapremo se il governo di centrosinistra riuscirà a fare ciò che non era riuscito a Berlusconi: limitare le intercettazioni telefoniche giudiziarie (mentre delle migliaia di intercettazioni illegali degli spioni e delle agenzie private che si fanno in questo Paese nessun politico si occupa). Già ora sappiamo invece come sono andate le inchieste precedenti di Henry John Woodcock, il magistrato con la Yamaha 500: non proprio in nulla, come dicono i suoi tanti critici.
NON SOLO VIP. Non solo vip. Madre napoletana, padre inglese che gli ha lasciato il cognome su cui ironizzano grevemente Cossiga e Feltri, Henry John arriva alla procura Potenza nel 1999. Dopo poche settimane, fa arrestare il potente dirigente della cancelleria del tribunale fallimentare, Mario Campana, che aveva trasformato il suo ufficio in un’agenzia immobiliare: vendeva le case e i beni dei fallimenti come fossero roba sua. Confessa, patteggia 20 mesi di carcere per concussione e falso, risarcisce 25 mila euro allo Stato: la prima indagine è un successo.
Poi tocca a una banca. Nel 200o mette sotto inchiesta la Banca mediterranea di Potenza, gruppo Banca di Roma. Secondo il magistrato, gli amministratori avevano concesso finanziamenti facili, poi diventati crediti impossibili, ad alcuni clienti privilegiati, fra cui un’azienda di costruzioni napoletana che allora si diceva vicina a Paolo Cirino Pomicino, la Icla (già coinvolta nelle indagini sulle infiltrazioni della Camorra nell’Alta velocità Roma-Napoli e nella ricostruzione del dopo terremoto in Campania). L’ipotesi di reato, falso in bilancio, viene cancellata dalla nuova legge sulla materia voluta da Berlusconi. Woodcock non demorde: nel maggio 2005 ricorre alla Corte costituzionale, sollevando una questione di legittimità. È in attesa della decisione della Corte.
Chi sostiene che il magistrato inquisisca solo vip per farsi pubblicità ignora una parte cospicua della sua attività, quella quotidiana. Sempre nel 2000, per esempio, apre un’inchiesta sul liceo Fermi di Potenza: i dirigenti della scuola, per impedire la chiusura dell’istituto, avevano mantenuto in vita una classe fantasma falsificando i registri e addirittura i compiti in classe. Due anni dopo, quattro imputati patteggiano pene varianti tra gli 8 e i 19 mesi di carcere per associazione a delinquere e falso, mentre altri dodici sono stati rinviati a giudizio. Nel 2002 incappa nelle patenti facili: arrivavano da tutta Italia per prendere a Potenza la licenza di guida, previa mazzetta (3 milioni e mezzo di lire) ai funzionari della Motorizzazione. Quando le Iene raccontano il caso in tv, Woodcock ha già scoperchiato la pentola della corruzione. Oggi è in corso il processo, ma il funzionario che chiudeva un paio d’occhi sulle revisioni di automezzi pesanti ha già chiuso patteggiando una pena di 1 anno e 8 mesi e restituendo il denaro che aveva intascato per attestare controlli di autoveicoli mai avvenuti.
Non solo vip e non solo reati contro la pubblica amministrazione. Woodcock si occupa, quando capitano, anche di omicidi. Nel 2000 sostiene l’accusa nel processo per l’omicidio di un’insegnante di 56 anni, ottenendo dalla Corte d’assise di Potenza la condanna dei due responsabili a 21 e 18 anni. Nel febbraio 2002 ottiene la condanna (16 anni di carcere, ne aveva chiesti 12) per due persone, fratello e sorella, che avevano provocato la morte di un uomo di 67 anni. Chi poi volesse far indossare a Woodcock la toga rossa, sostenendo che inquisisce solo politici del centrodestra, sarebbe smentito dai fatti. Nel 2001 fa arrestare un ex senatore dei Ds, Rocco Loreto, diventato sindaco di Castellaneta in provincia di Taranto. Loreto è accusato di calunnia e violenza privata perché, quando era senatore, aveva secondo l’accusa convinto un imprenditore a rivolgere false accuse a un magistrato locale. Il processo si è interrotto per decisione del Senato. E Woodcock ha sollevato davanti alla Corte costituzionale il conflitto d’attribuzione tra organo parlamentare e organo giurisdizionale, sostenendo che è difficile ritenere che calunnie e minacce facciano parte dell’attività insindacabile dei senatori.
Altrettanto deluso resterebbe chi volesse sostenere che Woodcock si ferma davanti alla corporazione di cui fa parte. Nell’ottobre 2000 ottiene l’arresto del presidente della commissione tributaria provinciale, Emanuele Casamassima, già magistrato di Cassazione, accusato di falsità in scrittura privata. Quanto agli avvocati, Woodcock ne ha fatti condannare un paio molto potenti. A 1 anno e 4 mesi in appello, per bancarotta fraudolenta, Francesca Sassano, per la vicenda del fallimento della società italo-cinese Orop, che in 19 anni aveva succhiato oltre 10 miliardi di lire di contributi pubblici senza avviare alcuna attività. A 16 mesi un altro civilista lucano, accusato di aver intascato 2 milioni di lire da un cliente con la falsa promessa di usarli come tangente per riottenere la casa pignorata.
Ma è l’inchiesta Inail, nel maggio 2002, a far scoppiare il caso Woodcock. L’indagine segue le tracce delle tangenti pagate a dirigenti dell’Istituto nazionale per l’assicurazione contro gli infortuni sul lavoro, in cambio di appalti. Finiscono in carcere 14 persone, sei agli arresti domiciliari. Un’inchiesta iniziata per caso, indagando sul direttore del personale di un’impresa, il gruppo De Sio, che pagava un dipendente con cifre inferiori a quelle indicate nella busta paga. Il magistrato scopre i fondi neri che la De Sio utilizzava per il pagamento di mazzette all’Inail, ma anche all’Eni-Agip, interessata allo sfruttamento del petrolio lucano. Il filone petrolifero frutterà il 16 settembre 2002 altri 17 arresti, tra cui quello del dirigente Eni Carlo Femiani, accusato di aver chiesto una tangente di 150 milioni di lire.
Woodcock ipotizza un reato associativo che coinvolge quello che ritiene essere un composito comitato d’affari. Composto dai quattro fratelli De Sio, dall’imprenditore napoletano Bruno Capaldo, dal banchiere Claudio Calza, dai deputati Angelo Sanza (Forza Italia) e Antonio Luongo (Ds) e dal vicepresidente della Giunta regionale della Basilicata, Vito De Filippo (Ppi-Margherita). Tra gli indagati ci sono anche uomini della Guardia di finanza. Il gruppo, secondo l’accusa, funziona così: Calza il banchiere procura agli imprenditori De Sio il denaro per le mazzette; l’onorevole Sanza sfrutta a vantaggio dei De Sio conoscenze e informazioni in suo possesso; De Filippo e l’onorevole Luongo fanno pressioni, in particolare su dirigenti di Eni-Agip, per favorire il gruppo De Sio. Una tangente di 780 milioni di lire è pagata, secondo l’accusa, a tre dirigenti romani dell’Inail perché scelgano una certa offerta per la nuova sede dell’ente ad Avellino. La tangente, secondo l’accusa, è consegnata a Roma dai fratelli De Sio a Mauro Gobbi, Antonio Marra e Vittorio Raimondo attraverso tre intermediari, Emidio Luciani, Enrico Fede e Bruno Luongo.
Tra gli arrestati c’è anche il generale dei carabinieri Stefano Orlando, già responsabile della sicurezza di Francesco Cossiga, accusato di aver rivelato a Calza notizie sulle indagini in corso. Questo arresto fa andare su tutte le furie l’ex presidente della Repubblica: Cossiga ironizza sul pubblico ministero Woodcock, insulta la giudice per le indagini preliminari Gerardina Romaniello (la definisce adatta al ruolo di presentatrice televisiva), sbeffeggia il capo della procura potentina Giuseppe Galante («Uno che fa un lavoretto da azzeccagarbugli»). Intanto arrivano però le prime conferme. I De Sio ammettono: «Pagavamo tutti i partiti, senza distinzioni, e spendevamo 50, 60 milioni ogni campagna elettorale. Soltanto uno del Ppi ci ha restituito i soldi, ma solo dopo quattro anni». Il commercialista romano Bruno Cavaterra rivela: «L’ imprenditore che si aggiudicava un appalto dell’Inail doveva effettuare un deposito fiduciario di assegni presso un notaio, a garanzia del futuro pagamento della tangente». Il 13 giugno 2002 il tribunale del riesame conferma la validità dell’inchiesta e la tesi di fondo dell’intreccio delinquenziale tra affaristi e politici, mantenendo agli arresti 13 indagati e rimettendone in libertà solo sei, tra i quali il generale Orlando e il vicepresidente della Giunta regionale De Filippo, comunque interdetto per due mesi dai pubblici uffici.
L’inchiesta prosegue, il 2 luglio, con l’arresto a Roma del direttore generale dell’Inail, Alberigo Ricciotti, portato in carcere insime, di nuovo, a Emidio Luciani, a suo figlio Lorenzo e all’imprenditore Spartaco Sparaco: tutti beneficiari, grazie a generose mazzette, di appalti dell’ente. A Roma, Milano, Ancona, Verona, Francavilla e Potenza, sono sequestrate sei società intestate a Sparaco e Lorenzo Luciani e titoli per oltre 632 mila euro, considerati provento delle mazzette. Bloccato anche un conto corrente. Intestatario: Vittorio Raimondo, presidente del collegio sindacale dell’Inail di Roma. Tre giorni dopo Emidio Luciani ammette di aver pagato mazzette per diversi miliardi di lire a Vittorio Raimondo. Il 7 agosto lo stesso Luciani ed Enrico Fede patteggiano una pena rispettivamente di 20 e 8 mesi di carcere, restituendo all’Inail delle belle somme: Luciani 250 mila euro, Fede 25 mila. A soli 14 mesi dall’inizio delle indagini e a due dai primi arresti, questi patteggiamenti sono stati definiti «miracolosi»: per un giudice che «dovrebbe cambiare mestiere» non c’è male.
Ma le polemiche erano intanto arrivate al parossismo perché, indagine dopo indagine, intercettazione dopo intercettazione, l’inchiesta era cresciuta fino a diventare un grande romanzaccio che mette in mostra il retrobottega della Seconda Repubblica. Erano entrati nelle sue pagine anche Franco Marini e il braccio destro di Massimo D’Alema, Nicola Latorre, indagati per favoreggiamento perché avrebbero avvertito il patron del Perugia calcio Luciano Gaucci di essere intercettato. Ernesto Marzano, accusato di vendere le nomine di competenza del fratello, l’allora ministro Antonio Marzano. Francesco Storace, presidente della Regione Lazio, che interviene sul presidente dell’Iacp per far avere un appartamento a una camerata, ex assessora di An alla Provincia. Maurizio Gasparri, sospettato di aver informato un imprenditore di essere sotto controllo. Il diplomatico Umberto Vattani, accusato di aver favorito imprenditori amici per appalti e per una fornitura di gas tunisino. E poi Tony Renis che cerca di sponsorizzare un imprenditore presso il ministro Giulio Tremonti. Anna La Rosa, che riceve in regalo un orologio tempestato di brillanti dal re delle cliniche che poi ospita nel suo programma tv (quel Giampaolo Angelucci, trasversale editore di Libero e Il Riformista arrestato per altre vicende il 20 giugno 2006). E Flavio Briatore…
Troppo. Non per l’overdose di malcostume, ma per l’affollamento di personaggi noti e potenti, non cercati, ma finiti uno dopo l’altro nella rete. Così la voce delle proteste supera quella del disgusto. Il 9 gennaio 2004 arriva la decisione della Cassazione: dovrà essere la procura di Roma a proseguire l’inchiesta sugli indagati della «holding del malaffare» che sono diventati, intanto, 76. L’inchiesta viene divisa, qualche pezzo si perde per strada, si sparge la voce che tutto è finito in nulla, che le indagini di Woodcock scoppiano come bolle di sapone. Non è vero. Gasparri e Marzano sono prosciolti dal tribunale dei ministri. Prosciolti Angelo Sanza e Vito De Filippo, diventato nel frattempo presidente del Consiglio regionale della Basilicata. Prosciolto dall’accusa di associazione a delinquere anche il deputato Ds Antonio Luongo, il banchiere romano Claudio Calza e dall’accusa di corruzione il dirigente dell’Eni-Agip Carlo Femiani.
Ma il generale Orlando è scarcerato solo per il venir meno delle esigenze cautelari, con conferma da parte del tribunale del riesame che esistono gravi indizi di colpevalezza. E gli imprenditori sono rinviati a giudizio: per associazione a delinquere, corruzione e rivelazione di segreto d’ufficio. Con loro un ufficiale delle Fiamme gialle (accusato di aver evitato controlli ai De Sio in cambio di un fuoristrada) e un paio di sottufficiali (che avrebbero rivelato agli imprenditori notizie sull’inchiesta). Il processo è in corso. Intanto Vattani è rinviato a giudizio a Roma. Anna La Rosa incassa un’archiviazione dell’accusa di corruzione per l’orologio di brillanti, ma gli stessi pm che gliela concedono chiedono che gli atti siano trasmessi alla Rai e all’Ordine dei giornalisti perché valutino la posizione deontologica e professionale della giornalista di Telecamere. E tanti altri restano sub judice in vari tribunali d’Italia.
A essere smentito non è Woodcock, ma Vittorio Feltri, condannato a Monza il 13 febbraio 2005 per aver diffamato il magistrato con un articolo apparso su Libero il 2 giugno 2002.
LA CUPOLA DI POTENZA. Il 22 novembre 2004 Woodcock porta a compimento un’altra maxinchiesta: quella sul clan mafioso dei Martorano, la cosca che domina la vita economica della città e condiziona i politici locali. A destare clamore, questa volta, è la richiesta d’arresto per il deputato di Forza Italia Gianfranco Blasi, accusato di aver stretto un «patto di alleanza» con il clan diretto da Renato Martorano e Giovanni Quaratino, un’organizzazione criminale legata alle cosche calabresi e a quelle campane. Il clan Martorano ha costruito una rete di rapporti tra imprenditori di cui regola criminosamente l’attività, spartendo tra i membri del sodalizio appalti e affari. Il deputato lucano avrebbe ricevuto sostegno elettorale, in cambio di appoggio nelle gare alle quali partecipavano imprese controllate dal clan mafioso. Blasi, secondo Woodcock, avrebbe anche incontrato il boss Martorano e gli imprenditori legati al clan per «programmare» parte della sua attività in favore delle imprese «amiche» e il 2 settembre 2000, quando è ancora consigliere regionale della Basilicata, partecipa alla festa di matrimonio della figlia di Pio Albano, ritenuto elemento di spicco del clan Martorano.
Scattano le manette per 51 persone. Nell’ordinanza di custodia compaiono i nomi di due deputati lucani: ancora Antonio Luongo (Ds) e Antonio Potenza (Popolari-Udeur). «Legato» al clan il primo, beneficato dai voti fatti confluire sul suo nome il secondo. Fra gli arrestati, il presidente della Camera penale di Basilicata, l’avvocato Piervito Bardi, accusato di aver fornito informazioni riservate a Martorano, pur non essendo suo difensore. Tra gli indagati Antonino Garramone, consigliere comunale di Forza Italia e imprenditore che avrebbe pagato tangenti e procacciato assunzioni di amici e «clientes» all’ombra del clan Martorano, ma anche il presidente della Giunta regionale Filippo Bubbico (Ds) e del Consiglio regionale della Basilicata, De Filippo (Margherita), il sindaco di Potenza e l’assessore regionale alle Attività produttive. Nel dicembre 2004 il tribunale del riesame ridimensiona la parte politica dell’inchiesta e scarcera, tra gli altri, l’avvocato Bardi, tornato in libertà in tempo per diventare il difensore di Vittorio Emanuele. È il primo vero stop all’attività di Woodcock. Subito colto dall’allora ministro della Giustizia Roberto Castelli che invia i suoi ispettori a Potenza. Tuttavia il riesame, nelle sue motivazioni, riconosce i «gravi indizi di reità in ordine ai delitti scopo dell’associazione mafiosa», segnalando come «ampiamente delineato il clima di intimidazione e terrore del quale sono vittime le persone offese». Sarebbe una sconfitta fisiologica, per un pm che si occupasse di ladri di polli. Non per il magistrato che ha ormai addosso troppi occhi. Oggi più che mai. ·
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Il CORRIERE DELLA SERA
28 marzo 2007
Sono coinvolti nell’indagine sul “comitato d’affari” della Basilicata
CSM, TRASFERIMENTO PER 4 MAGISTRATI LUCANI
Nessun provvedimento invece per il pm di Potenza Woocock e per il gip Iannuzzi,protagonisti della vicenda Vallettopoli
ROMA – Quattro procedure di trasferimento per i magistrati lucani ma nessuna legata direttamente alla vicenda di “Vallettopoli” e dalla lista è comunque esclusa quella relativa al pm Henry John Woodcock. La prima commissione del Csm ha aperto infatti quattro procedure per trasferire d’ufficio quattro magistrati lucani coinvolti nell’inchiesta della Procura di Catanzaro. Il trasferimento d’ufficio per incompatibilitá riguarda il procuratore capo di Potenza Giuseppe Galante, i sostituti Vincenzo Montemurro e Felicia Genovese e il presidente del Tribunale di Matera, Iside Granese. La decisione è stata presa dalla prima commissione di Palazzo dei Marescialli questo pomeriggio durante una seduta straordinaria, dopo le audizioni che si erano tenute nei giorni scorsi al Csm. Le audizioni erano state effettuate dopo l’apertura dell’inchiesta della Procura di Catanzaro che coinvolge alcuni magistrati lucani per un presunto ‘comitato d’affarì che avrebbe agito in Basilicata in diversi settori.
UNANIMITA’ – La decisione sul trasferimento per i quattro magistrati lucani è stata presa all’unanimitá dopo ore di discussione. È stata invece bocciata la proposta del presidente della prima commissione Gianfranco Anedda di aprire una procedura di trasferimento d’ufficio anche per il pm Henry John Woodcock, titolare dell’inchiesta su “VallettopolI”, e del gip Alberto Iannuzzi.
INCOMPATIBILITA’ – Ai quattro magistrati è contestata l’incompatibilitá ambientale, ossia legata alla permanenza negli uffici giudiziari di Potenza e di Matera e non riguardo lo loro funzioni; le toghe verranno ascoltate il prossimo 17 aprile, ma prima di allora la prima commissione potrebbe effettuare ulteriori audizioni. Dopo l’apertura delle quattro procedure di trasferimento si apre ora un’istruttoria alla fine della quale la commissione deciderá se proporre al plenum il trasferimento dei magistrati oppure procedere ad una archiviazione.
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IL CORRIERE DELLA SERA
08 giugno 2007
Le accuse vanno dall’associazione a delinquere alla corruzione alla truffa
POTENZA: PERQUISITI MAGISTRATI E POLITICI
Il pm di Catanzaro indaga sul sottosegretario Bubbico (Ds)
sul procuratore Tufano e su altri magistrati e poliziotti
POTENZA – A Potenza sono in corso, nell’ambito dell’inchiesta coordinata dal sostituto procuratore della Repubblica di Catanzaro, Luigi De Magistris e denominata «toghe lucane» in merito all’esistenza di un presunto «comitato d’affari», coordinata dal sostituto procuratore della Repubblica di Catanzaro, alcune perquisizioni nelle abitazioni e gli uffici del sottosegretario allo Sviluppo economico, Filippo Bubbico (Ds), del Procuratore generale di Potenza, Vincenzo Tufano, dell’avvocato Giuseppe Labriola e della dirigente della Squadra Mobile di Potenza, Luisa Fasano, moglie di un parlamentare dell’Ulivo. Le perquisizioni sono eseguite dagli uomini delle Fiamme Gialle del Nucleo di polizia tributaria di Catanzaro.
RICERCA DOCUMENTI – L’obiettivo del magistrato è quello di acquisire documenti utili all’inchiesta e soprattutto necessari per provare i presunti reati su cui è concentrata l’attenzione degli investigatori. Nell’inchiesta sono coinvolti uomini politici, amministratori, imprenditori, funzionari e magistrati in servizio in Basilicata (fra questi ultimi, uno ha lasciato la magistratura e altri sono già stati trasferiti in altre sedi dal Consiglio Superiore della Magistratura).
Le ipotesi di reato sono quelle di abuso d’ufficio per Tufano; corruzione in atti giudiziari e associazione per delinquere per Labriola; abuso d’ufficio per Fasano; abuso d’ufficio, associazione per delinquere e truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche per Bubbico. Secondo l’accusa, vi è chi avrebbe fatto parte di un «vero e proprio centro di affari occulto», che tutelava «interessi personali e di gruppi, anche occulti».
FASSINO – «Chiunque conosca Filippo Bubbico ha potuto apprezzarne l’onestà personale, la correttezza istituzionale, la competenza politica e amministrativa. E nessuno può davvero credere alle accuse che gli vengono rivolte» ha dichiarato il segretario Ds Piero Fassino a proposito dell’inchiesta aperta in Basilicata. Aggiunge il leader Ds: «Ci auguriamo che la Magistratura operi celermente accertando quello di cui noi siamo già oggi assolutamente sicuri: la totale estraneità di Filippo Bubbico a qualsiasi illecito». Insomma, per Fassino «non può non suscitare interrogativi preoccupanti il fatto che si attivino perquisizioni dall’evidente impatto pubblico e mediatico alla vigilia di un passaggio elettorale così impegnativo per la città di Matera».