In Italia 75 per cento del territorio è classificato sismico; meno del 20 per cento del patrimonio edilizio si può considerare adeguato
Da Il manifesto, 15 aprile 2009
Autore: De Lucia, Vezio
Un futuro da costruire
Impariamo dal passato, e non dimentichiamo la responsabilità di chi ha contribuito a trasformare un terremoto in una tragedia collettiva.
La gravità della situazione italiana dal punto di vista della sicurezza sismica sta nei due dati fondamentali: il 75 per cento del territorio è classificato sismico; meno del 20 per cento del patrimonio edilizio si può considerare protetto. È enorme quindi la dimensione della tragedia potenziale e delle inadempienze istituzionali. Dopo ogni evento si sono sprecati gli impegni solenni che mai più sarebbe successo, che la messa in sicurezza del territorio e la sua manutenzione sarebbero diventate la più importante opera pubblica del paese. E invece, ogni volta, passata l’emergenza più acuta, il terremoto e la prevenzione sono stati accantonati.
Non solo, il quadro che emerge dalla tragedia abruzzese fa vedere che è venuta meno la stessa ordinaria gestione della vigente normativa tecnica. Gli edifici in cemento armato, sottoposti a scosse non eccezionali come quelle di questi giorni, non dovrebbero collassare, e gli edifici cosiddetti strategici – ospedali, prefetture, caserme, opere pubbliche di particolare importanza – dovrebbero mantenere la propria funzionalità anche dove la terra trema. E invece all’Aquila sono crollati o sono stati fortemente danneggiati la casa dello studente, l’ospedale, la prefettura, il municipio, molta edilizia costruita negli ultimi anni. È stato detto che questi sono fatti della magistratura, e non c’è dubbio che così debba essere, ma mi pare che quando i comportamenti delittuosi sono così diffusi non si possa non cogliere la natura politica del problema. L’irresponsabile sottovalutazione della sicurezza pubblica dal terremoto e dalle catastrofi è uno dei temi di cui prioritariamente dovrebbero farsi carico il governo e le forze politiche. Altro che rumeni, ronde e sciacalli.
A conferma dell’insensibilità per la sicurezza sta l’indulgenza, o addirittura il favoreggiamento, nei confronti dell’abusivismo, diffuso soprattutto nel Mezzogiorno dove più elevata è la pericolosità sismica. L’edilizia abusiva è a rischio per definizione, perché è evidente che chi costruisce illegalmente non si preoccupa né delle qualità del sedime né delle caratteristiche strutturali del manufatto.
Il condono rappresenta una sorta di «cupo presagio», ha scritto Roberto De Marco, già direttore di quel servizio sismico che si occupava di prevenzione e che poi si è pensato bene di sopprimere. In Italia, in diciotto anni, sono stati approvati ben tre provvedimenti di condono. Ricordiamo chi li ha voluti: 1985, governo Craxi; 1994, governo Berlusconi; 2003, governo Berlusconi.
Né possiamo dimenticare il piano casa e dintorni, che era una specie di condono preventivo e gratuito, e prevedeva addirittura procedure semplificate per le zone sismiche. Secondo Salvatore Settis, il piano casa è stato consegnato «a una sorta di percorso carsico», da cui riemerge ogni giorno in veste diversa. Costante sembra l’intento, sostenuto anche dalle regioni, di annacquare le norme di tutela previste dal codice del paesaggio.
In vista dei problemi della ricostruzione è bene fare tesoro dalle più recenti esperienze: nel bene e nel male. A partire dal rischio delle infiltrazioni malavitose che nel cemento e nelle condizioni di emergenza trovano il migliore campo di coltura, e in Abruzzo la presenza di clan camorristici è già accertata.
Intanto, per fortuna, l’ipotesi delle new town esce a pezzi. Gli esempi di Gibellina e degli altri comuni del Belice (e anche dell’Irpinia) che imboccarono la strada del trasferimento mi sembra che nessuno li condivida, mentre i casi di Venzone e di Gemona in Friuli restano esempi mirabili di ricostruzione com’era e dov’era, accompagnata da grande attenzione al ripristino del tessuto sociale e comunitario. Mi pare molto importante il fatto che la maggioranza dei cittadini e degli amministratori intervistati si siano pronunciati per restare dove stavano. Per «tenere memoria», come ha scritto Roberto Saviano.