Critiche di tre urbanisti al "piano casa" di Berlusconi
Francesco Indovina
Università Iuav di Venezia
11 marzo 2009. – Un ritorno alle origini. Il cavaliere Berlusconi in ricordo dei suoi passati di “costruttore” edilizio ha elaborato un suo “piano casa” per rilanciare l’economia. Sogna che accanto al “piano Fanfani” i libri di storia possano ricordare, come di altrettanto successo, il “piano Berlusconi”, ma come tutti i sogni svaniscono all’alba. L’Italia di oggi non è quella degli anni del dopoguerra, inoltre il “piano Fanfani” era anche un piano finanziario per la costruzione di case di edilizia economica e popolare. Insomma tutto un’altra cosa, una cosa talmente diversa che sembra usurpato lo stesso titolo di piano. Non a caso si parla di “liberalizzare l’edilizia”.
Ancora con precisione non si sa bene cosa sia questo, già famoso, piano. Esso sembra formato sostanzialmente da due elementi: semplificazione e deroghe per aumento di cubatura.
Non c’è nessuno che si oppone alla semplificazione delle procedure, ma a condizioni che sotto questa veste non si contrabbandino altri meccanismi. La proposta, per quanto se ne sa, intenderebbe sostituire la “licenza edilizia”, rilasciata dal comune, con il “parere di conformità” da parte di un tecnico che con una perizia giurata dichiara la conformità dell’edificazione alle norme vigenti e al piano regolatore può permettere l’immediato inizio dei lavori. Se ne può discutere sotto condizioni. Per esempio, ma altri potranno esercitarsi, che siano drastiche le penalità per le dichiarazioni “non” conformi, con esclusione del tecnico dall’esercizio della professione per almeno dieci anni; il pagamento di una penale pari al 50% della costruzione che andrà sostenuta per il 25% da parte del tecnico e 25% da parte del proprietario, che va al Comune; la demolizione dell’edificio non in regola e il ripristino dello stato precedente a spese del proprietario. Ma questo non basta, il “parere di conformità”, sebbene giurato, non può darsi per accertato, esso andrà controllato dai tecnici comunali, senza che questo ritardi l’inizio dei lavori, e qualora risultasse non conforme l’obbligo del Comune di bloccare i lavori, senza possibilità di “modificare” il progetto, ma applicando le penali di cui si è detto prima.
La parte consistente del piano del cavaliere è tuttavia quella dell’aumento delle cubature del costruito: aumento del 20%, 30% e 35%, secondo una diversa casistica, per edifici residenziali e commerciali anche in deroga ai piani vigenti. Questa dovrebbe essere la norma che “mette il turbo” nel settore edilizio a costo zero.
Nonostante che l’incremento sia consistente non sono prevedibili i miracolosi risultati che il cavaliere Berlusconi immagina. Intanto, per quanto inventivi possano essere architetti e ingegneri, nei condomini (case a torre) per lo più appartenenti a molti proprietari che ci abitano, sarà difficilissima l’applicazione di questa possibilità. Certo qualcuno immagina di abbattere e ricostruire (la convenienze ci sarebbe) interi condomini, così un edificio di 6 piani diventerebbe un edificio di 8-9 piani, ma non sarà facile né numerosi i casi (proprietà frazionata, difficoltà di sistemazione per gli attuali occupanti, ecc.). Qualche vantaggio possono ottenerlo gli abitanti di case unifamiliari, ma, nonostante il “diffuso” le famiglie che abitano in case unifamiliari non sono un’alta percentuale. Nelle zone di villeggiatura forse ciò avverrà con più frequenza, con risultati dannosi sul piano della vivibilità collettiva, del decoro urbano e della salvaguardia del paesaggio. A questo proposito il cavaliere è molto ligio, ha sostenuto che questi incrementi sono possibili solo per gli edifici in regola anche con i vincoli paesaggistici, ma non è chiaro cosa succede di questi vincoli con l’aumento della cubatura (che sono in deroga). Detto tutto questo va sottolineato che non pare una fase in cui le famiglie sembrano disposte ad effettuare investimenti.
Dove invece la proposta potrà avere applicazione estensiva è nel settore commerciale della grande distribuzione, ipermercati, centri commerciali ecc. e qui il disastro bussa alla porta. Gli incrementi saranno consistenti, si pensi ad uno di questi centri con 3.000 metri quadri che possono crescere di altri 1000 mq. Certo anche per loro non è momento di investimenti, ma la proposta sembra permanente e quindi alla riprese avremo un’esplosione di questi interventi. Non servono oggi a rilanciare l’edilizia, ma domani per dare un ulteriore colpo alla manomissione del territorio.
In sostanza siamo alla demagogia: provvedimenti oggi sostanzialmente inefficaci, quindi inutili a promuovere l’occupazione, buoni in futuro quando ci sarà la ripresa, ma allora non serviranno per l’occupazione, con una deregulation di cui il paese non sente il bisogno.
Sarebbe utile un piano finanziario per la costruzione di case di edilizia economica per una quota di domanda assolutamente non compatibile con gli attuali prezzi di mercato (anche degli affitti). Ma di questo il governo non si occupa, pensa ai proprietari di ville, come dice lo stesso cavaliere Berlusconi.
Oscura appare la proposta del ministro Brunetta, in un articolo di giornale non si può chiarire tutto, ma l’essenziale forse sarebbe necessario, di trasformare l’affitto delle case di edilizia economica e popolare in una rata di mutuo (in sostanza passerebbe alle case a “scomputo”). Una liberalizzazione utile dice il ministro, ma non è chiaro se la rata del mutuo corrisponde perfettamente all’attuale affitto o meno. Nel primo caso, anche se costituisce un impoverimento del patrimonio pubblico e un aumento di rigidità del mercato, si potrebbe esaminare la proposta. Il secondo caso nasconde un’insidia: cosa succede se le famiglie occupanti non possono sostenere la spese per il mutuo? È un’esperienza in parte già fatta, con i patrimoni di alcuni istituti, ed è stata fallimentare e densa di espulsioni e di drammi.
Teresa Cannarozzo
Università di Palermo
21 marzo 2009 – Il 7 marzo 2009 si apprende dai media che il Presidente del Consiglio sta ideando un nuovo Piano Casa che manda in soffitta le previsioni precedenti contenute nella finanziaria del suo governo (l. 133 del 6.08.2008, Art. 11 “Piano Casa”). Berlusconi comunica trionfalmente di avere messo in cantiere un decreto legge che sarà denominato “Misure urgenti per il rilancio dell’economia attraverso la ripresa delle attività imprenditoriali edili”, chiamato in maniera abbastanza impropria “Piano Casa”. Una proposta che tutta l’Europa vuole copiare.
Sono scaturite furiose polemiche ma anche preoccupanti consensi come quello di Nomisma, formulato con una visione economicistica, abbastanza deludente.
Si tratta di una iniziativa deflagrante che, se andrà in porto così come annunciato, seppellirà per sempre i principi e le regole dell’urbanistica che hanno sempre avuto il fine di mediare l’interesse privato e l’interesse pubblico e spegnerà definitivamente la speranza di riqualificare città e aree metropolitane, di salvaguardare il paesaggio, di recuperare i centri storici e le periferie pubbliche: di prevedere in sintesi lo sviluppo sostenibile e la modernizzazione del paese in armonia con l’identità storica e culturale della nazione. Perché in una fase storica in cui perfino gli Stati Uniti sono addivenuti ad aderire a principi di sostenibilità climatica, energetica e ambientale, le idee del Presidente del Consiglio sono ispirate alla deregulation più totale e minano alle fondamenta l’istituto della pianificazione urbanistica che è l’unico in grado di mettere a sistema l’uso delle risorse e le necessità degli insediamenti umani.
Dalla bozza del decreto fin qui pubblicizzata emerge una visione miope, arretrata, privatistica e anarcoide dell’attività edilizia, emerge una assoluta mancanza di considerazione del rapporto tra abitanti, attrezzature, servizi e sistemi insediativi. Infatti uno dei principi cardine della pianificazione urbanistica (Decreto Interministeriale 1444 del 1968) è la regola che ad ogni abitante insediato debba corrispondere uno standard di attrezzature pubbliche: scuole, verde parcheggi, attrezzature comuni. Così come se si impianta o si ingrandisce una attività produttiva (industria o centro commerciale) deve essere prevista una quantità adeguata di parcheggi. Emerge una candida ignoranza di queste regole elementari, che andrebbero applicate per gestire la complessità e l’equilibrio delle strutture territoriali e urbane, ritenute invece aree trasformabili a proprio piacimento.
Il provvedimento, finalizzato a rilanciare l’attività edilizia, propone infatti che, in deroga agli strumenti urbanistici, ognuno possa ampliare il volume della propria abitazione del 20%; nel caso di edifici non residenziali (fabbriche, capannoni industriali, centri commerciali) si prevede invece l’aumento del 20% della superficie. Nel caso di demolizione e ricostruzione gli aumenti di volumetria e di superficie possono arrivare al 35% “a condizione che siano utilizzate tecniche costruttive di bioedilizia o di fonti di energia rinnovabile o di risparmio delle risorse idriche e potabili”. Nell’indecenza più totale una foglia di fico in direzione della sostenibilità.
Gli aumenti di volumetria sono stati finora consentiti negli strumenti urbanistici tradizionali, a certe condizioni, perfino in Sicilia. La novità rovinosa e inaccettabile è che tutto questo sia possibile in deroga ai piani regolatori comunali, sulla base di esigenze solo privatistiche, al di fuori da qualunque controllo pubblico.
Infatti la procedura proposta prevede che tali iniziative si attuino attraverso una semplice dichiarazione di inizio di attività inoltrata da un tecnico, senza prevedere, pare, sanzioni per dichiarazioni mendaci.
Lo scenario prevedibile è quello di una crescita di bubboni ed escrescenze verticali e orizzontali, in tutto l’edificato, costituito prevalentemente dagli agglomerati di case unifamiliari (lottizzazioni di ville e villette), spesso costruite a ridosso le une dalle altre, intervallate da spazi liberi di dimensioni minime. L’ingrandimento della abitazione o della fabbrichetta o del centro commerciale potrà piacere ai molti che potranno sostenere i relativi costi, ma potrebbe dispiacere ai vicini e ai confinanti. Per non dire del conseguente sottodimensionamento delle attrezzature di pertinenza, come il verde e i parcheggi.
Per quanto riguarda i condomini, lo scenario è invece quello della chiusura indiscriminata di terrazze e balconi, con i materiali più diversi (tra cui primeggerà l’alluminio anodizzato a basso costo) secondo il modello delle metropoli del terzo mondo. Ma con un po’ di fantasia, che non manca ad alcuni architetti, si potrebbero incastrare anche nei piani alti (come si faceva prima per realizzare servizi igienici e cucine nelle case medioevali) volumi a sbalzo, aggiungere ramificazioni coralline, innalzare selve di torrini. Naturalmente, nel rispetto, autocertificato della stabilità degli edifici.
Per quanto riguarda la demolizione e la ricostruzione con ampliamento, nel caso degli edifici condominiali, l’ipotesi sembra poco praticabile, sia per i costi, sia per la presenza di abitanti che non saprebbero dove andare. Certo, nel caso di edifici residenziali abitati in affitto, la proprietà potrebbe decidere di mandare via gli inquilini e avere mani libere per demolire e ingrandire. La cacciata degli inquilini che già è avvenuta con la vendita del patrimonio residenziale pubblico di proprietà degli enti e che avviene in alcuni centri storici, che presentano processi di valorizzazione immobiliare, aggraverebbe il disagio abitativo delle fasce sociali più deboli.
La bozza del decreto prevede anche la liberalizzazione della modifica della destinazione d’uso degli edifici “nel rispetto della normativa relativa alla stabilità degli edifici e di ogni altra normativa tecnica, nonché delle distanze e delle disposizioni del codice civile e delle leggi speciali a tutela dei diritti dei terzi”. Il mutamento, “in tutto o in parte”, della destinazione d’uso e possibile anche “senza opere edilizie”.
Non è chiaro finora se ci saranno ambiti urbani e territoriali esclusi da questa frenetica attività di intasamento edilizio, come per es. i centri storici o gli edifici vincolati come beni monumentali.
In ultimo, rimane il problema delle cornici legislative appropriate. Il Presidente del Consiglio ha confermato il proposito di procedere con decreto-legge, benché sia ben consapevole che il provvedimento attiene ad una materia, il governo del territorio, indicata dalla riforma del titolo V della Costituzione (2001) come legislazione concorrente tra Stato e Regioni.
Ciò significa che la potestà legislativa dello Stato nella materia del governo del territorio è limitata alla determinazione dei principi fondamentali; principi che avrebbero dovuto essere enunciati in una legge nazionale di riforma organica che si aspetta dal 1942. E francamente non sembra che i contenuti della bozza del decreto legge siano spacciabili per principi fondamentali di interesse nazionale; né sembra appropriata la decretazione di necessità e urgenza. Ma il Presidente del Consiglio troverà sicuramente il modo di superare tutto quello che ostacola i suoi obiettivi. Anche per non deludere l’Europa.
Naturalmente queste proposte dissennate vellicano gli egoismi e gli individualismi largamente diffusi nella nazione, annichiliscono l’interesse pubblico e non danno nessuna risposta al problema sociale del fabbisogno abitativo, che si materializza nei disagi di migliaia di famiglie che non riescono a trovare una casa in affitto a prezzi sostenibili, nelle difficoltà delle giovani coppie in regime di lavoro precario ad accendere un mutuo per l’acquisto della prima casa, etc….
Si tratta insomma di misure a favore di un segmento sociale, economicamente dotato, in grado di migliorare (si fa per dire) la propria condizione abitativa, la propria attività produttiva. Ma certo non si tratta di dare la casa a chi non ce l’ha.
L’Italia avrebbe bisogno di ben altro: innovazione e infrastrutturazione delle città e delle aree metropolitane, reti efficienti di trasporto pubblico su ferro, recupero e riqualificazione dei centri storici e delle periferie pubbliche, tutela attiva del paesaggio e del territorio storico, coesione e integrazione sociale attraverso serie politiche di social housing. Prima di sprofondare nel terzo mondo.
Massimo Carta
Università di Firenze
22 Marzo 2009.- Finalmente possiamo disporre di una bozza di decreto (“Schema di decreto legge recante: Misure urgenti per il rilancio dell’economia attraverso la ripresa delle attività imprenditoriali edili”) sul quale compiere delle considerazioni preliminari, articolandole secondo alcuni aspetti che ci paiono particolarmente preoccupanti della proposta, finche proposta rimane e può essere corretta. Lo schema appare estremamente povero di dettagli, in un campo come quello del governo del territorio, dove la chiarezza e la assoluta limpidezza delle norme è necessaria per impedirne qualsiasi dubbia interpretazione, e per dare ai Comuni la possibilità reale di controllo delle trasformazioni. In più lo schema utilizza retoricamente come novità delle procedure già mature (i premi di volumetria derivati da una edificazione attenta al risparmio energetico, la D.I.A. già diffusa pratica di snellimento dell’iter progettuale ecc.) ingenerando qualche confusione.
Autorevoli voci di singoli architetti e urbanisti hanno ben espresso dubbi sull’eticità stessa della proposta, sottolineando ancora di più il silenzio un poco troppo prudente dei rispettivi ordini professionali; proposta che trasferisce beni comuni (il paesaggio, ad esempio) ai possessori di date proprietà immobiliari al fine di accrescerne il “valore”. Dubbi riferiti alla sua efficacia rispetto agli obiettivi che dichiara, ovvero il rilancio dell’economia, addirittura al fine di “sostenere la domanda interna di beni e servizi”, in un contesto congiunturale estremamente complesso, che solo in una narrazione semplicistica si gioverebbe di un incremento delle volumetrie/superfici edilizie. Perplessità che vanno dalla possibilità che gli strumenti di controllo previsti dallo schema possano realmente funzionare (ad esempio il vaglio di Sovrintendenze sotto organico e oberate di pratiche) al fatto che un provvedimento previsto in un lasso di tempo così definito non porti insita una inevitabile proroga.
Parco di dettagli, lo schema, ma molto chiaro nello scenario che dipinge: io credo che il Presidente del Consiglio abbia intercettato perfettamente un certo tipo di desiderio istintivo del possidente italiano (diciamo per ora piccolo, anche se appare tra le righe la possibilità di buoni affari anche ai grandi operatori immobiliari), il quale sa con certezza ciò che possiede e come aumentarne a breve il valore o le “prestazioni” in relazione alla sua natura e collocazione. In un momento delicato dal punto di vista economico come questo che attraversiamo, il provvedimento, al di là di una affermata “generalizzazione del beneficio”, è estremamente selettivo rispetto ai contesti che potrà interessare. I primi (forse i soli) ad essere stravolti dai cantieri (cantieri “poveri”, presumibilmente, che faranno dell’economia della realizzazione la loro missione, altro che qualità ecocompatibile) saranno quei contesti dove l’aumento di volumetria o superficie potrà massimizzare la resa dell’investimento in un momento in cui la liquidità è molto scarsa. I metri cubi aggiuntivi e in deroga alzeranno i tetti e occuperanno nuovo suolo laddove converrà di più: ad esempio sulle coste della consenziente Sardegna, dove una stanza in più costruita al costo medio di 900, 1000 euro al mq, può fruttare un aumento di valore fino a 3000, 4000 euro al mq. È quello sardo un esempio chiaro di come un bene pubblico complesso come il paesaggio continuerà, se questo schema verrà confermato, ad essere trasferito ai privati già possessori di valore posizionale, aumentando di contro lo svilimento generale della qualità dei servizi e della vita, e diminuendo necessariamente l’attrattività turistica del contesto, erodendo dunque anche le possibilità di future economie virtuose e sostenibili.
Ha ragione a mio parere, infine, chi ha definito questa proposta un condono ex ante: infatti, il ruolo che avranno i Comuni in tutta Italia (entro il 31 dicembre 2001) sarà quello di tentare di redigere dei veri e propri piani di “risanamento” alle azioni di trasformazione già effettuate per allora senza un quadro di riferimento chiaro in forza dei provvedimenti proposti, in una impossibile e perversa missione di inseguimento delle trasformazioni che mortifica i migliori sforzi degli urbanisti e architetti italiani di offrire altre possibilità e altri scenari al nostro territorio già così incredibilmente compromesso.