Se fosse già operativa la controriforma delle intercettazioni, Scajola non si sarebbe dimesso.
dal Corriere della sera del 5 maggio 2010. di Luigi Ferrarella
LE INTERCETTAZIONI: Se la nuova legge fosse già in vigore neanche una riga sulla casa di Scajola
Cosa c’entrano le intercettazioni con il caso Scajola? Niente: alla base della sua vicenda non ci sono microspie, ma solo assegni bancari e dichiarazioni di testimoni, atti peraltro tutti non più coperti da segreto perché depositati al Tribunale del Riesame. Eppure, se fosse già in vigore la legge proposta dal ministro Alfano sulle intercettazioni, gli italiani nulla saprebbero ancora della casa di Scajola. E nulla gli italiani ancora saprebbero perché nulla i giornali avrebbero potuto scriverne in questi 12 giorni, e ancora fino a chissà quanti altri mesi. Al contrario di quello che i promotori della legge raccontano, e cioè che con essa intendono impedire la pubblicazione selvaggia di intercettazioni segrete, l’attuale testo in discussione alla Commissione Giustizia del Senato vieta, con la scusa delle intercettazioni, la pubblicazione — non solo integrale ma neanche parziale, neanche soltanto nel contenuto, neanche soltanto per riassunto — degli atti d’indagine anche se non più coperti dal segreto, e questo fino a che non siano concluse le indagini preliminari ovvero fino al termine dell’udienza. In più, aggancia la violazione di questo divieto a un’altra legge già esistente (la 231/2001 sulla responsabilità amministrativa delle imprese per reati commessi dai dipendenti nell’interesse aziendale), e per ogni pubblicazione arbitraria fa così scattare non solo ammende maggiorate per i cronisti (da 2 a 10 mila euro, dunque con oblazione a 5 mila euro), ma soprattutto maxi-sanzioni a carico delle aziende editoriali fino a 465 mila euro a notizia
Per dare un’idea dell’impatto, i quotidiani nazionali, con quello che hanno pubblicato di vero e di più non segreto in questi 12 giorni, rischierebbero già 4/5 milioni di euro, e i loro cronisti oblazioni già per 60 mila euro a testa (sempre che il giudice non ritenga, a motivo della gravità del fatto, di negare l’oblazione e avviare il giornalista a un processo che potrebbe concludersi con la condanna a 2 mesi di arresto per ogni pubblicazione arbitraria).
Il caso di Scajola è ancor più istruttivo perché rivela quanto ipocrita sia il ritornello di chi vuole far discendere dalla sola rilevanza penale la condizione di «scrivibilità» di una vicenda giudiziaria, e dalla sola qualifica di indagato l’unico criterio di interesse pubblico di una notizia. Il ministro non è indagato dalla Procura di Perugia ed è possibile che nemmeno lo sia in futuro, quindi in base a questo buffo criterio non si dovrebbe scriverne alcunché. Allo stato, anzi, Scajola è un «terzo» estraneo ai fatti di reato contestati invece ad Anemone e Zampolini per il controverso tragitto immobiliare di quegli 80 assegni, e dunque la sua vicenda, misurata su questo singolare parametro, dovrebbe restare esente da attenzioni giornalistiche. Ma quanto questo sarebbe assurdo l’ha dimostrato indirettamente proprio un importante dirigente del partito di Scajola e di Alfano, il coordinatore nazionale del Pdl Denis Verdini, quando poche settimane fa convocò una conferenza stampa per sventolare alcune intercettazioni allegate a una memoria difensiva depositata agli atti e dunque non più segrete, dalle quali a suo avviso emergevano non reati ma indebiti comportamenti di un dirigente del centrosinistra toscano. Iniziativa assolutamente legittima, se l’onorevole Verdini la ritiene valida e se, come ogni giornalista, se ne assume la responsabilità (su veridicità e continenza) rispetto ai già oggi esistenti confini della diffamazione. Solo che il coordinatore del Pdl dovrebbe andare a farlo presente al ministro della Giustizia, appena approderà in Parlamento la legge che dichiara di voler fermare le intercettazioni selvagge ma in realtà vieta la cronaca. O provare a ricordarlo al presidente del Consiglio quando, come ieri, afferma che in Italia «c’è fin troppa libertà di stampa».