Piazza Fontana: non è vero che non sono stati identificati gli autori della strage.
L’ultimo falso di piazza Fontana
di Luigi Ferrarella (Giornalista) dal Corriere della Sera del 12 dicembre 2009
A inquinare il quarantennale della strage di piazza Fontana è un conformismo speculare a quello che, all’inizio, viziò la ricerca dei responsabili della bomba che il 12 dicembre 1969 uccise 17 persone e ne ferì 88.
Nei confronti delle vittime è infatti immorale, prima ancora che falso nella ricostruzione storico-giudiziaria, coltivare il luogo comune di una verità ignota, di una strage senza paternità, di misteri totalmente mai diradati.
Ma forse non è un luogo comune coltivato per caso: viene proiettato sulla vicenda di ieri per poter essere usato oggi, in difetto di coerenza rispetto ad analoghe odierne dinamiche.
Non è vero che non siano stati identificati responsabili della strage.
Carlo Digilio, neofascista di Ordine Nuovo, ha confessato il proprio ruolo nella preparazione dell’attentato e ottenuto nel 2000 la prescrizione per il prevalere delle attenuanti riconosciutegli appunto per il suoi contributo.
E la Cassazione del 2005, nel confermare l’assoluzione in appello del trio Zorzi-Maggi-Rognoni condannato in primo grado nel 2000 all’ergastolo, ha chiaramente scritto che con le nuove prove, emerse nelle inchieste successive allo «scippo» del processo milanese nel 1972 e alla definitiva assoluzione nel 1987 degli ordinovisti veneti Franco Freda e Giovanni Ventura, entrambi sarebbero stati condannati.
Neanche si può dire che «strategia della tensione» e «matrice neofascista» delle stragi di quel lustro (piazza Fontana, treno Freccia del Sud, Peteano, Questura di Milano, piazza della Loggia, treno Italicus) siano espressioni che, per quanto logorate dall’inflazione d’uso, manchino di conferme: processuali, come ad esempio la condanna definitiva di Freda e Ventura per le bombe del 1969 pre-piazza Fontana: attentati per i quali alcuni innocenti (anarchici) erano già stati condannati e sarebbero stati incastrati se a Treviso il giudice Stiz nel 1971-1972 non avesse riportato gli accertamenti sui binari giusti, ben diversi da quelli che intanto, avevano già innescato l’arresto dell’anarchico Valpreda, la controversa morte di Pinelli in Questura, la campagna della sinistra estremista contro il commissario Calabresi e il suo omicidio ad opera di Lotta Continua nel 1972.
Neppure «servizi deviati», «depistaggi» e «ruolo degli americani» sono concetti che prescindono da punti fermi giudiziari.
L’ex generale del Sid, Gian Adelio Maletti (dal 1980 riparato in Sudafrica), e il capitano Antonio Labruna hanno condanne definitive per il depistaggio di indagini alle quali sottrassero protagonisti cruciali fatti scappare all’estero.
E circa il ruolo americano quantomeno di osservazione senza intervento, è stata ricostruita la catena di comando Usa che gestiva il neofascista Digilio come collaboratore nascosto della Cia.
Ma forse dimenticare tutto questo ha a che fare con la sciatteria meno che con l’incoerenza.
Se infatti si concordasse sul fatto che allora segmenti di organi di sicurezza allontanarono davvero la verità, non si dovrebbe sottovalutare oggi il rischio che singole «cordate» diventino tanto più pericolose quanto più sganciate da contrappesi istituzionali; e dunque si dovrebbe ad esempio rifuggire da quei progetti di legge che intendono sottrarre le polizie giudiziarie (gerarchicamente già dipendenti dai loro vertici e dunque dalla politica) alla dipendenza funzionale dai pm.
E se si prendesse atto che allora settori della politica non brillarono certo per trasparenza, si dovrebbe oggi chiedere con forza che la politica, quando lambita da inchieste giudiziarie, non si trinceri dietro il linciaggio dei titolari delle indagini e non si autoassolva nell’opacità di garanzie stravolte in privilegi di casta.
Ora va di moda, anche tra chi in questi quarant’anni ha avuto responsabilità di governo, augurarsi che i «grandi vecchi» ancora vivi e sparsi per mezzo mondo (magari Maletti in Sudafrica, Zorzi in Giappone, Ventura in Argentina) svelino in punto di morte verità inedite: ma l’auspicio non va di pari passo, ad esempio, con una coerente incisività nell’impegnare l’Italia a chiedere al Giappone la consegna di Delfo Zorzi, tuttora latitante per la strage di piazza della Loggia.
Così come strappa oggi facili applausi chi carezza la consolante retorica che invoca di togliere un «segreto di Stato» che in realtà non c’è su piazza Fontana: anche qui coerenza vorrebbe almeno che chi auspica la rimozione di inesistenti «segreti di Stato» si attivasse per toglierli o per non apporli, laddove invece sono mantenuti o rischiano di essere messi, su vicende quali il sequestro Cia di Abu Omar a Milano nel 2003, il dossieraggio Telecom fino al 2005, e ora alcuni sviluppi delle nuove indagini sulle stragi mafiose del 1992.
Se poi i liceali di oggi ignorano chi siano Valpreda, Pinelli o Calabresi, e attribuiscono la strage di piazza Fontana alle Brigate rosse, questo va sul conto di un’informazione adagiatasi negli anni sui propri comprensibili meccanismi di routine, che per definizione rendono poco notiziabile una vicenda così lunga e segnata da esiti così altalenanti.
Fino al pressoché totale black-out di attenzione giornalistica sull’ultimo e unico processo che possa ancora aggiungere squarci di ulteriore verità alla stagione delle bombe, e cioè il dibattimento di primo grado in corso dalla fine 2008 a Brescia a 5 imputati (alcuni assolti nel 2005 su piazza Fontana) della strage di piazza della Loggia, costata 8 morti e 108 feriti nel 1974.
Sarebbe un serio gesto di responsabilità, tra tanti pur doverosi omaggi al quarantennale della strage del 1969, che giornali e tv si assumessero l’impegno di seguire con continuità, d’ora in avanti, le udienze del processo di Brescia.
Certo non si può pretendere di veder rispuntare in ogni giornale un Marco Nozza, lo scomparso inviato de Il Giorno tra i protagonisti all’epoca di una vera controinformazione non annebbiata da pregiudizi ideologici: ma almeno 40 righe sui giornali o un minuto nei Tg che raccontino come vanno le udienze di questo processo, in un angolino tra il plastico di Cogne o le chat di Amanda, questo forse sì.