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Piano per le speculazioni edilizie: un’analisi delle conseguenze sulla città e i suoi abitanti.

ampliamento-villaDa Il Manifesto del25 marzo 2009:  La critica di Paolo Berdini, Presidente del Corso di laurea in Pianificazione territoriale, urbanistica e ambientale dell’Istituto universitario di architettura di Venezia dal 1994 al 2001 e preside della Facoltà di Pianificazione del territorio dal 2001 al 2002.

Una giungla di cemento

Le città incivili di Berlusconi e soci. Avrebbe dovuto chiamarsi così il decreto legge che è stato invece intitolato al rilancio dell’attività edilizia. Le città sono infatti un prodotto complesso della società e della cultura e sono sempre state, nella loro millenaria storia, luoghi di regole. Regole di convivenza civile tradotte in numeri e rapporti di vicinato. Regole ormai consolidate che vengono infrante lasciandole all’arbitrio di volgari speculatori immobiliari: il decreto afferma infatti nel suo secondo articolo che le norme derogano sulle “disposizioni legislative, strumenti urbanistici, regolamenti edilizi”. Vengono cancellate le regole e il futuro delle città viene affidato a quegli stessi speculatori che in questi due decenni di liberismo senza regole hanno potuto costruire in ogni angolo dell’Italia. La ricetta per far ripartire l’economia è di affidare i destini delle città ai principali responsabili dello sfascio e di annullare gli strumenti pubblici del controllo. Questo non succede in nessun paese europeo, dove anzi si lavora per restituire al pubblico il ruolo messo in dubbio alla radice dalle teorie liberiste, forti del fatto che è stata proprio quell’ubriacatura a causare la più grave crisi economica mondiale. Da noi avviene l’esatto contrario.

E avviene attraverso un grande imbroglio mediatico Dicono in coro i media imbeccati da palazzo Chigi che con il provvedimento molti ci guadagneranno allargando le loro case, mentre nessuno ci rimetterà. Perché protestare allora? Perché non è vero. E’ noto a tutti che i piani urbanistici impongono una distanza minima tra fabbricati di 10 metri: con il decreto si scende a 6. Ci sarà chi si vedrà costruire una finestra a sei metri di distanza e dicono che non ci rimette nessuno! Ancora. In un quartiere a villini tipico delle periferie urbane realizzate a cavallo del novecento, uno speculatore qualsiasi potrà abbattere le vecchie case e con il regalo del 35% in volume, potrà realizzare una palazzina. Un piano o due in più. I giardini storici spariranno. Per un incivile berlusconiano ci rimettono decine di normali cittadini.

In un quartiere a palazzine di tre piani qualsiasi furbetto del quartierino potrà demolire e realizzare case con un piano o due in più. Ancora una volta per un furbo che ci guadagna sono decine coloro che vedranno deprezzata la propria abitazione. E la città diventerà più brutta.

Con il decreto non vengono risparmiati neppure i centri storici. Afferma l’articolo 3 che per tutti gli edifici “non vincolati” (che sono oltre il 99% dell’intero patrimonio storico), le Soprintendenze in trenta giorni potranno imporre soltanto “ulteriori modalità costruttive”, cioè nulla. Invece di meravigliose tipologie seriali medievali vedremo sorgere volgari edifici ben più alti di quanto la storia li aveva resi uniformemente belli. Uno o due piani in più toglieranno per sempre il panorama di chi abitava, spesso da una vita, quei luoghi. Le città, beni comuni per eccellenza, ne verranno irrimediabilmente sfigurate. Le città incivili, appunto.

Ma c’è di peggio. Il provvedimento non sconvolge soltanto le zone della città che citavo. Anzi, esse sono soltanto una cortina fumogena per nascondere sciagurati affari milionari. Il cuore del provvedimento si rivolge ai protagonisti dell’economia di rapina di questi anni. E’ stato il gretto egoismo proprietario a far nascere capannoni in ogni angolo della pianura veneta e lombarda. Oggi che sono vuoti il proprietario potrà mutarne la destinazione facendone case. E’ stata l’arroganza dei grandi gruppi della distribuzione commerciale a disseminare a proprio piacimento l’Italia di immensi centri commerciali. Oggi che sono in crisi è meglio riconvertirli in alloggi. Questo prevede il decreto: e stiamo parlando di aumenti di superficie anche di 15 mila metri quadrati, un’intera palazzina.. Ma una città vivibile non nasce da queste logiche. Così si crea la città della paura: disseminare il territorio di abitazioni sulla base della volontà dei proprietari significherà condannare famiglie all’isolamento e all’emarginazione.

Ma è purtroppo questo il richiamo della foresta dell’attuale classe dirigente. Giovedì scorso durante un dibattito nella televisione del quotidiano LaRepubblica, Claudio De Albertis, per molti anni presidente nazionale dei costruttori edili e oggi presidente dei costruttori milanesi, ha affermato che l’assurdo della questione casa è che si continuano a costruire alloggi popolari che durano troppi anni. Per risparmiare, ha detto, bisogna costruirne di nuove che durino un tempo limitato. Venti anni, poi si demoliscono e si rifanno. Il problema dunque non è che lo Stato e i comuni sono in ginocchio, uccisi da un economia di rapina. La questione è che si costruisce con criteri troppo generosi. Le persone in carne e ossa vanno dunque trattate come merci senza nessun diritto. La gravità dell’affermazione è inaudita. Del resto, è lo stesso metodo che viene applicato ai precari: se c’è la crisi, tutti a casa senza diritti. Sarebbe ora che qualcuno dicesse a costoro di costruire per loro stessi case rapide. Per le loro signore e per la loro prole, se tanto ci tengono. Ricordasse ancora che è il dettato costituzionale ad affermare che la “Repubblicarimuove gli ostacoli di ordine economico e sociale”. Case rapide o ubicate al posto dei vecchi capannoni della speculazione quegli ostacoli le accentuano. Le rendono eterne.

Due altre vergogne. La cubatura in aumento viene calcolata sulla base di quella “realizzabile e delle pertinenze esistenti” (articolo 2). Sarà lo scempio del paesaggio agricolo italiano perché si calcoleranno stalle, granai e altri giganteschi volumi di questo tipo. Ai comuni (articolo 6) viene imposto di prendere nota dei maggiori volumi realizzati e di provvedere ad “assicurare gli standard urbanistici”. Il privato guadagna e il pubblico paga.

Infine la prova del delitto. Si dice (articolo 2 comma 3) che si potrà mutare destinazione d’uso “anche senza opere edilizie”. Ma il decreto non serviva a rilanciare l’edilizia? E’ evidente che senza fare opere non si spenderà nulla, ma i soliti noti si metteranno in tasca milioni di euro. Ecco il vero motivo del provvedimento: un paese in mano alla rendita speculativa.

Basterebbero queste critiche per far scattare un generalizzato rigetto di massa del provvedimento. Ma la condizione è che qualche forza politica aprisse una battaglia frontale per far affermare culture differenti: troverebbe un terreno fertilissimo di consenso. E in questo campo ci sono già ottimi esempi. La regione Puglia di Vendola e del bravo assessore Angela Barbanente di recente ha approvato una legge sulla rigenerazione urbana che permette davvero le “rottamazioni edilizie”, ma non in un quadro di selvaggia deregulation. Sono i comuni che decidono luoghi e modalità degli interventi. Dobbiamo contrapporre questa cultura -la sola in grado di far ripartire il sistema paese- alla barbarie berlusconiana.

© Altrabenevento

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