Gli interrogativi sull’arresto di Bernardo Provenzano
Il presunto capo di Cosa Nostra è stato arrestato in un casolare di Corleone tra cicorie e ricotte, il giorno dopo le elezioni politiche. Molti si interrogano sulla lunga latitanza, sulle caratteristiche della mafia “moderna” e sul rapporto con i politici.
dal sito CENTRO PEPPINO IMPASTATO www.centroimpastato.it
Provenzano: LO HANNO PRESO O SI E’ FATTO PRENDERE?
di Salvo Vitale.
12 aprile 2006
E’ finita. Non tanto questa sconcia campagna elettorale, che minaccia di allungarsi per i prossimi cinque anni, ma la latitanza di u zu Binnu.
Bernardo da Corleone, così come il suo omonimo compaesano, santificato da papa Woytila, cui si era ispirato Manzoni nel descrivere la figura di Fra Cristoforo. Le due anime di un paese, il santo e il diavolo, Placido Rizzotto e il suo carnefice Luciano Leggio, le due facce di una comunità dove la mafia ha fatto da padrona e l’antimafia ha cercato di rispondere con i suoi mezzi, coraggiosi e non violenti, spesso senza la protezione dello stato.
Ora che finalmente lo guardiamo in faccia, ossuto, magro e in buona forma fisica, abbigliamento quasi sportivo , sorriso quasi sornione, viso vagamente rassomigliante all’ultimo Henry Fonda, ci vengono in mente le stesse considerazioni di quando arrestarono Totò Riina: “Può un uomo del genere, con una simile faccia da “viddanu” , aver tenuto in scacco uno stato?”. Nel caso di u zu Binnu l’espressione del viso è più addolcita, quasi indifesa, circonfusa da un’atmosfera di falsa sacralità: può quest’uomo aver giocato impunemente a guardie e ladri per quasi mezzo secolo, aver raccolto la difficile eredità del dopo-Riina, averla gestita con abilità per più di un decennio, aver portato avanti la strategia dell’inabissamento, del ritorno dell’abbraccio col potere politico per una oculata divisione delle risorse disponibili? Può un uomo del genere avere bloccato il decollo economico della Sicilia con lo spietato sistema del “pizzo”, che taglia le gambe ad ogni possibilità e ad ogni volontà d’investimento libero? Se è successo, vuol dire che “ha potuto”. Il “pizzo” e il “pizzino”, i due strumenti tipici dell’”era Provenzano. Da una parte un capillare e organizzatissimo sistema di estorsione in cambio di protezione, dall’altra un antiquato, ma efficace modo di corrispondere in un’epoca in cui computer e cellulari sono strumenti facilmente individuabili. Provenzano catturato il giorno dopo le elezioni, (così come la rivelazione dei nomi dei politici collusi con Fiorani), testimonia l’estrema cautela con cui si sono mossi i giudici, per non influire sulla campagna elettorale. Una settimana prima c’è chi la notizia se la sarebbe giocata alla grande. Istintivamente torna alla mente l’espressione che il giudice Peppino Di Lello usò quando venne catturato Totò Riina: “L’hanno preso quando l’hanno voluto prendere”. Com’è possibile che un uomo sfuggito agli agguati e alle indagini delle forze dell’ordine si faccia catturare, solo, (lui che poteva disporre di tanti “picciotti” che ne proteggessero la latitanza), in uno squallido casolare di campagna, (lui che poteva consentirsi ben altre residenze), a due chilometri da Corleone, dove abita la moglie, a causa di un sacchetto di panni lavati e stirati che questa stava cercando di fargli recapitare? Si tratta di una cattura così atipica e banale, agli antipodi del mito di “fantasma” o di “primula” di cui Bernardo si è circondato
E’ molto più semplice ipotizzare che “u tratturi” si sia stancato di mangiare cicoria, (come Rutelli), accompagnata , malgrado il diabete, da qualche cucchiaino di miele, di curarsi senza regolarità, di fare lo zingaro, e abbia deciso di passare i suoi ultimi giorni in una comoda prigione, accanto a tutti quelli che in passato gli sono stati vicini e lo hanno ossequiato. Cioè che si sia consegnato. Oppure che sia stato l’amore a tradirlo. L’amore per Saveria Benedetta Palazzolo, di Cinisi, alla quale è stato sempre vicino e che gli scriveva: “Carissimo amore mio, con il volere di Gesù Cristo ho ricevuto il tuo scritto e leggo che stai bene. Così ti posso dire di noi. ..Vita mia ti sto mandando due paia di calzettoni che vanno bene per il freddo: li puoi lavare a mano, con acqua fredda, o anche in lavatrice. Tu volevi un paio di pantaloni, di quelli per la neve, li ho cercati, ma sono con la pettina davanti. A pantaloni non ci sono. Ti mando comunque questi. Se vuoi anche la felpa di sopra, fammelo sapere. I pantaloni puoi lavarli pure in acqua fredda”.
Del resto Binnu ha avuto sempre un rapporto affettuoso con la famiglia e per i due figli Angelo e Francesco Paolo, al punto da incaricare Pino Lipari di studiare come farli esonerare dal pagamento delle tasse universitarie. Lipari, che Peppino Impastato chiamava “Il Pari d’Inghilterra”, anche lui di Cinisi, figlioccio di Sarino Badalamenti, poi passato ai Corleonesi, è stato, sin al momento del suo arresto, il “ministro dei lavori pubblici” di Bernardo Provenzano e si è occupato minuziosamente di tutti i suoi affari: non possiamo fare a meno, parlando di lui, di citare una sua lettera, scritta proprio al suo capo: “Rileggo quei passi della Bibbia che tu mi hai inviato e mi ha colpito la massima secondo cui l’albero si riconosce dal suo frutto. Vedo che trovi tanto tempo per dedicarlo alla lettura, ma la tua saggezza, per non dire quella di tutti noi, non si forma con la lettura, che certamente aiuta molto ma bisogna che l’uomo, nella sua struttura, sia propenso alla riflessione, alla calma e altruista nell’aiutare il prossimo. Tu hai tutte queste caratteristiche e quindi affronti la vita come si presenta, come un dono di Dio. La tua fede è massima e ti aiuta moltissimo. Dio ti ha illuminato e spero sempre con preghiera che ti protegga per il bene tuo e di tutti quelli che ti vogliamo bene”
Sembra di leggere una lettera di Emilio Fede a Berlusconi!. Davanti a tanta devozione, religiosità e ammirazione è necessario ringraziare Dio per averci dato un simile “segno” della sua grandezza e rimproverare le forze dell’ordine perché arrestando Binnu stanno ostacolando i disegni divini e perseguitano uno degli “eletti”, degli “unti” del Signore.
Qualcuno ha ipotizzato guerre di supremazia tra Matteo Messina Denaro e Salvatore Lo Piccolo: è possibile invece che i due abbiano raggiunto da tempo un accordo di pacifica convivenza e spartizione delle reciproche sfere d’influenza e che tutto, nell’ambito e nella copertura di questa maggioranza politica, che alla gran parte dei siciliani piace tanto, possa tranquillamente continuare per molto altro tempo, secondo l’impostazione studiata , voluta, collaudata e lasciata in eredità da Bernardo Provenzano: del resto, non a caso, nella stanza del pastore che ospitava Binnu, fornendogli formaggio e ricotta fresca, sono stati trovati facsimili con l’invito a votare al senato per Totò Cuffaro e alla camera per Nicolò Nicolosi, attuale sindaco di Corleone. Normale.
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Repubblica 13 aprile 2006
Quella lunga inazione
di GIUSEPPE D’AVANZO
Vedere quell’omino trascinato finalmente in galera, nonostante l’età, nonostante i capelli bianchi e l’aspetto sottomesso, è una gioia, è una letizia. Bernardo Provenzano è un mafioso e un assassino. Ha ordinato la morte di decine di servitori dello Stato, e Giovanni Falcone e Paolo Borsellino sono soltanto gli ultimi. Ha organizzato lo sterminio di centinaia di rivali: cinquanta, dicono, li ha uccisi con le sue mani. Quel senso di soddisfazione diventa, quindi, subito un grazie ai cocciuti poliziotti che lo hanno stanato e ai tanti che, prima di loro, ci hanno provato senza fortuna; al ministero che li ha sostenuti tutti. Ma, dopo la privata soddisfazione di ciascuno e il pubblico grazie, è giusto (e più serio) tenere sotto controllo la retorica del “successo straordinario dello Stato”, una formula che fiorisce oggi sulla bocca di troppi. Non può essere un successo straordinario, per un Paese occidentale, festeggiare senza un’ombra di imbarazzo l’arresto di un criminale sfuggito all’arresto per 42 anni e sette mesi. Soprattutto, se dopo quattro decenni, lo acchiappano a due chilometri da Corleone, a un tiro di schioppo da casa sua, dalla sua famiglia di sangue mentre la moglie gli invia – come probabilmente ha fatto sempre in questi anni – camicie ben lavate e odorose.
Una latitanza, come quella di Bernardo Provenzano, per durare nel tempo ha bisogno, come un uomo d’aria, di un ambiente sociale colluso e di istituzioni complici o colpevolmente pigre o politicamente distratte. Non si può far festa se, nel nostro Paese, sono esistite ed esistono ancora una società tollerante con gli assassini e governi “deboli” o incapaci.
Sono l’una e gli altri che hanno reso introvabile quell’omino dimesso, invisibili i luoghi frequentati, vincente la sua volontà di dominio; ne hanno nascosto la rete di relazioni, protetto gli affari. Addirittura reso indecifrabile la sua biografia.
Ancora oggi, noi non sappiamo dire chi è Bernardo Provenzano. Dobbiamo spiare dal buco della serratura che ci è stato offerto dai disertori di Cosa Nostra. Da quel punto di vista, che necessariamente nel corso del tempo è diventato l’interpretazione della magistratura, si vede doppio. Si vede un uomo e il suo contrario.
Ci è stato descritto soltanto come un assassino senza scrupoli, sapiente e determinato nel dare la morte, ma ottuso e con “un cervello di gallina”. Qualche anno dopo, ci è stato raccontato come una “mente raffinatissima” capace di dare flessibilità al “sistema mafioso” adattando continuità e innovazione, violenza e mediazione. Ci è stato detto che Binnu era “una sola cosa” con quell’altro viddano (contadino, zotico) di Totò Riina. Che quei due erano l’indice e il medio nella stessa mano. Che una decisione dell’uno era sempre la decisione anche dell’altro e, senza un perché o un per come, quel duumvirato al governo di Cosa Nostra ci è stato consegnato come una convivenza obbligata perché, in realtà, tra i due viddani di Corleone c’è sempre stata una irriducibile incompatibilità. Ad esempio, non è vero che Provenzano, come dice Salvatore Cangemi, ha deciso con Riina le stragi. Binnu era contrario, svela Antonino Giuffré. Quegli anni di stragi (Capaci, via D’Amelio e l’anno dopo, il 1993, Roma, Firenze, Milano) Provenzano non le ha mai approvate.
E’ stato questo, nel tempo e nelle istruttorie, l’incipit necessario per disegnare ancora un altro Provenzano, diventato ora il paziente tessitore di un “patto” tra i mafiosi in galera e i mafiosi in libertà, l’accorto mediatore capace di offrire ai poteri pubblici e alla “borghesia mafiosa” una Cosa Nostra “buona”, accomodante, moderata nell’uso della violenza, rispettosa delle regole del bel tempo antico, interessata soltanto a fare piccioli, a mettere da parte denaro. Di questa Cosa Nuova, Provenzano è stato descritto come il rispettato “papa officiante” anche se, quando a Cinisi sequestrano e uccidono il figlio di Procopio Di Maggio, si sente dire che quel delitto è il segno della crisi del suo sistema di potere e di alleanze perché, ci viene suggerito, dentro la Cosa Nuova “si stanno creando nuovi equilibri, stanno emergendo nuovi capi”. Salvo poi che quei delitti si trasformano da mosse contro Binnu in “operazioni chirurgiche” di Binnu, taglio di rami secchi e inaffidabili.
“Non si capisce”, avrebbe detto Leonardo Sciascia. Non si capisce di che cosa dovremmo essere soddisfatti oggi se, dopo 42 anni e sette mesi, non sappiamo ancora dire con ragionevole certezza chi è davvero Bernardo Provenzano. Meno che mai dovremmo far festa pubblica, se si pensa quel che, di quell’assassino, sappiamo (ce lo hanno raccontato Ernesto Oliva e Salvo Palazzolo nella loro accurata biografia del mafioso) e con ostinazione, collettivamente, ignoriamo da anni.
Sappiamo che una differenza tra Riina e Provenzano c’è sempre stata. U’ zu Totò vuole tutto, vuole tutta la roba per sé, tuttu meu, tuttu meu. L’altro, l’omino canuto che abbiamo visto in tv, è più assennato. “Mangia e fai mangiare”, va dicendo. Riina aspira, da contadino, soltanto a terreni e immobili. Provenzano, più lungimirante, annusa gli affari moderni: costruzioni, forniture ospedaliere e munnizza (rifiuti). Migliaia di miliardi di lire in appalti ogni anno. Una gallina dalle uova d’oro che Binnu cura con accortezza creando imprese con soci insospettabili e con la presenza del fratello contadino, Scientisud, Medisud, Polilab, Biotecnica. E’ in questo orizzonte che il viddanu di Corleone, da una latitanza senza inquietudine, affina il suo fiuto politico, la convinzione che ce n’è per tutti: mafiosi, professionisti, imprenditori, burocrati, amministratori, politici. Tutti i politici. Per Riina, con i “rossi”, non bisogna avere a che fare. Provenzano non la pensa così. Anche “i comunisti” devono sedere al tavolo della spartizione. Appena può, al “tavolino” in cui si prendono le decisioni, invita anche “i rossi” creando le condizioni delle due configurazioni che, per Umberto Santino, definiscono l’impresa mafiosa: “convivenza/cointeressenza; convivenza/estraneità“. Perché, se è vero che “non risultano rapporti delle cooperative rosse con i mafiosi”, è anche vero che “non risultano neppure denunce di richieste di pizzo per cui si può presumere che le cooperative rosse in Sicilia abbiano sempre praticato una forma di convivenza del secondo tipo”.
Nel giorno dell’arresto di Bernardo Provenzano non si può essere lieti che, di questo sistema di relazioni, del suo “metodo”, non si sia mai pubblicamente discusso inventando per quell’omino la più digeribile icona di un Capo dei Capi, privo di telefono, ma capace di guidare una mafia modernizzata che muove i suoi passi nei mercati globali. Quindi, lontano dalla Sicilia, da Palermo, da Corleone rendendo dunque possibile la scelta dell’inazione ottimale contro la mafia, una politica che ha nobili natali e, dalle nostre parti, meno nobili condottieri.
“Inazione ottimale” fu chiamata la politica dell’Impero inglese in Oriente tra la fine del Settecento e i primi decenni dell’Ottocento a fronte delle iniziative di aggressione all’India degli zar e di Napoleone Bonaparte. Gli inglesi decisero che “far nulla” per fronteggiare quelle manovre fosse la migliore delle politiche, la più fruttuosa.
La politica italiana, tutta la politica italiana, ha scelto per lo meno da più di dieci anni l’”inazione ottimale” come nucleo essenziale delle politiche pubbliche destinate a contrastare la mafia. Al di là della retorica dell’antimafia, è stata condivisa la consapevolezza che “far nulla” sia la politica più efficace per tenere Cosa Nostra (di Provenzano) invisibile, dipendente, subalterna ai poteri statali, socialmente influente e disponibile, dunque, a sradicare la tentazione di coltivare un progetto “autonomizzante” (di Riina). L’inazione sollecita senza strappi la ricerca in Sicilia di un equilibrio “interno” tra politica, amministrazione, imprenditoria, burocrazie della sicurezza, interessi delle “famiglie” mafiose. Di questa rete Bernardo Provenzano è stato il custode, per lo meno dal 1993 ad oggi. Per che cosa dovremmo far festa? Davvero possiamo, senza imbarazzo, festeggiare come uno “straordinario successo” che quel “sistema” ha trovato forse un altro custode, più giovane magari e più colto, in assenza di un’apprezzabile attenzione pubblica
(12 aprile 2006)
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IL MANIFESTO del 12 aprile 2006
Il padrino fantasma
Giuseppe Di Lello
E’ finita diversamente da come sarebbe potuta finire – ad urne chiuse – la incredibilmente lunga latitanza di Bernardo Provenzano, l’indiscusso capo dell’ala militare di Cosa nostra. Una cattura data sempre per imminente da anni e sempre attesa per una qualche occasione «propizia» ma che non si è mai concretizzata per mille intoppi, imprevisti o sfortunate circostanze. Avviene invece in un innocuo 11 aprile, fuori tempo massimo, appena uno o due giorni dopo una di quelle occasioni da non perdere.
Avviene invece in un innocuo undici aprile, fuori tempo massimo, appena uno o due giorni dopo una di quelle occasioni da non perdere e ad opera della Polizia di stato al cui ministro Pisanu il colpaccio sarebbe servito prima ma che ormai serve ben poco. Credo che il boss – vecchio, malato ma ben conosciuto perché ben ritratto nell’ultimo identikit – fosse stato localizzato da tempo e pronto per essere servito a tavola da un momento all’altro. Potrebbe anche aver negoziato lui (o altri per lui, a sua insaputa o con il suo consenso) la resa allo Stato, ma non certo proprio per la mattina dell’undici aprile 2006. E’ probabile che la polizia, seguendo i sondaggi sfavorevoli al polo berlusconiano, abbia correttamente scelto di tirarsi fuori dalla contesa elettorale anche per non assegnare la cattura di Provengano al governo uscente e farsi poi rimproverare un «favore» carico di valenza politica. Non sapremo mai com’è andata realmente ma non c’è dubbio che va elogiata questa neutralità della polizia in un passaggio politico molto delicato: le polemiche e gli scontri post elettorali si trascineranno per molto ma non si aggirerà al loro interno il fantasma di Corleone.
Che dire di un’altra coincidenza, questa volta non mancata, tra la caduta di Provenzano e quella di un governo di centro destra – quello del 61 a 0 in Sicilia nel 2001 – che degli interessi mafiosi non è stato certamente un nemico irriducibile? Il governo Berlusconi aveva operato una scelta molto oculata nei confronti della mafia. Duro con i detenuti e i latitanti, ormai indifendibili anche a causa dell’attenzione internazionale verso questo fenomeno criminale, ma incline a favorirne gli interessi economici diffusi (seppure all’interno di un più ampio blocco di potere) attraverso il rientro anonimo dei capitali, i condoni, le sanatorie, le innumerevoli modifiche processuali che hanno paralizzato i processi penali, ecc. Provenzano era l’uomo cerniera di questi due fronti mafiosi perché, seppur latitante, era il dominus controllore e garante della spartizione degli appalti, degli affari legati ai servizi pubblici e alla sanità e simili. La sua caduta contestuale, e, speriamo casuale, con il governo Berlusconi segna solo la fine della sua storia personale, ma non segna certo la fine della mafia e della connessione di questa con la politica berlusconiana in Sicilia. Non c’è dubbio che la cattura del boss segna un punto importante a favore della determinazione delle forze dell’ordine e della magistratura nel contrasto con la criminalità. Importante è anche la carica simbolica di questo evento che spazza via anche il mito dell’invincibilità dell’uomo che sembrava personificare Cosa nostra. Messo da parte un capo, però, se ne fa subito un altro e gli affari continuano indisturbati, come dimostrano decenni di indagini giudiziarie. Disfarsi dei giocatori è importante ma è il gioco in sé che bisogna distruggere e qui entra in campo la politica e, nel nostro caso, la politica che il centrosinistra saprà attuare per contrastare al massimo un fenomeno criminale che tanti danni arreca alla democrazia di questo Paese. (giuseppe di lello)
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REPUBBLICA 15 aprile 2006
La psiche del boss dei boss
«Ecco perché il padrino viveva da povero»
Intervista al procuratore Grasso: «Provenzano voleva dare un esempio di etica mafiosa. Lavorava tutto il giorno sui “pizzini”»
PALERMO – «Per Bernardo Provenzano la scelta di condurre una vita in povertà era la più congeniale alle sue origini di pastore, la migliore sotto il profilo della latitanza e anche un esempio di “etica mafiosa” per gli altri dell’organizzazione». Dopo un paio di giorni convulsi, il procuratore nazionale antimafia Pietro Grasso affronta l’aspetto antropologico di una cattura senza precedenti. Quella che ha portato alla luce un «boss pastore» capace di vivere in una stamberga accanto a un ovile pur essendo il terminale centrale di una rete che indirizza affari per milioni di euro. «Parlo di etica mafiosa tra virgolette perché non intendo dare un’immagine positiva del latitante», puntualizza il magistrato quasi a non voler dimenticare l’altissima valenza criminale del boss.
Procuratore, c’è da stupirsi per il contrasto così forte tra il povero giaciglio senza lenzuola del capo e gli introiti milionari di Cosa nostra?
«Questo contrasto non lo vedrei. Siamo abituati ai simboli della società del consumismo, al denaro che deve servire per migliorare la nostra condizione, ai soldi che ci devono dare ciò che gli altri non hanno. In realtà, questo modo di interpretare la vita e la ricchezza non corrisponde né a Cosa nostra né al personaggio».
Però anche l’ultimo degli affiliati a Cosa nostra non disdegna la vita agiata, le grosse moto, le auto di lusso.
«Certo, ma qui sta la differenza tra i vecchi capi e quelli della nuova generazione. Se lei prende Mandalà, è la figura del capomandamento di Villabate (arrestato di recente, ndr) che già non ha più queste caratteristiche di “etica mafiosa”. Uno che non ha più il requisito, un tempo necessario per poter entrare in Cosa nostra e per poter essere inseriti nell’ élite criminale. Mandalà è uno che, secondo le intercettazioni, amava la bella vita, frequentava i casinò e si dice che prendesse pure un po’ di cocaina. Una figura completamente diversa da Provenzano che ha origini agricole».
Provenzano non ha mai conosciuto la vita agiata?
«Abbiamo tracce che lo collocano in Germania. Quando nel ‘92 sono tornati a Corleone, i suoi figli parlavano bene il tedesco e lui ha avuto un fratello che ha vissuto in Germania. È immaginabile che per un periodo sia stato accanto alla sua famiglia cui non faceva mancare niente. Aveva i suoi agi, magari la villa con piscina come Totò Riina o qualcosa del genere. Ma poi è tornato a nascondersi tra i pastori, persone di sua fiducia che lo conoscevano fin da quando era ragazzo».
Quindi la povertà è stata una scelta obbligata?
«Diciamo che c’è una scelta di vita e una scelta funzionale alla latitanza. Il pastore col gregge è la migliore vedetta in campagna. Stando lì a pascolare vede cose, macchine di forestieri. Con i fischi che i pastori si lanciano l’uno con l’altro, si possono inviare messaggi che segnalano la presenza di un estraneo. Quello dei pastori è un ambiente molto protettivo».
Il prezzo più alto di una latitanza in povertà è la solitudine fatta di giornate che non finiscono mai?
«Se si calcolano i tempi per scrivere e i tempi per rispondere a tutte le richieste, lui aveva la giornata lavorativa piena. Era metodico: scrivere, rispondere, mettere in ordine tutti questi “pizzini” che gli venivano recapitati ogni settimana o ogni 15 giorni. Ogni pratica non veniva risolta per telefono, ma con questo sistema di domande e risposte scritte».
Provenzano cosa ha voluto dimostrare ai boss sottoposti da anni al carcere duro del 41 bis?
«La scelta di povertà è un modo per continuare a essere il capo da latitante, facendo dei sacrifici per l’organizzazione. Provenzano distribuiva soldi e proventi alle famiglie dei detenuti. Ecco l’esempio di “etica mafiosa” per gli altri».
È già diventata letteratura l’alimentazione povera del boss: cicoria e formaggi.
«Nel suo rifugio abbiano trovato le cose che già ci avevano descritto. La cicoria che gli piaceva: la sua alimentazione di base, verdura e latticini, la definirei terapeutica. Abbiamo trovato la macchina per scrivere che avevamo già identificato con una perizia sui caratteri, il sacco descritto da Giuffré, gli occhialini e pochi effetti personali. Provenzano dava l’immagine del capo che si sacrifica per gli altri, come il comandante che abbandona per ultimo la nave».
Quando lo avete preso accanto all’ovile era pulito e sbarbato.
«Evidentemente dedicava il suo tempo anche alla cura della persona. È stato arrestato alle 11, era pronto perché era già al tavolo di lavoro».
Cosa colpisce nello sguardo di Provenzano visto da vicino?
«Lo sguardo è quello di un uomo che ha una grande forza d’animo. Per carità, non ne voglio dare un’immagine positiva, però quel suo sorriso, che non era un ghigno come qualcuno ha detto, mi pare un modo per accettare la situazione e cercare di sopportarla nel migliore modo possibile».
Come interpretare tutti quei simboli religiosi: le croci al collo, la Bibbia e i Vangeli trovati nel casolare?
«Ci eravamo resi conto di tutto questo leggendo i “pizzini” che si concludevano, quasi tutti, con una benedizione».
L’arcivescovo Salvatore De Giorgi ha parlato di Provenzano come di un «bubbone pestifero». I parroci di «usurpazione di simboli».
«La religiosità è qualcosa che si può anche avere pensando in maniera presuntuosa di essere nel giusto. Si può anche avere pensando, erroneamente, di fare del “bene”. Ma quello è un “bene” per loro che poi non è tale per il resto della società».
Dino Martirano
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REPUBBLICA 15 aprile 2006
Morale mafiosa, indagini giudiziarie e letteratura: la risposta a Grasso
«Il boss povero? Finzione, non etica»
Andrea Camilleri, l’autore del commissario Montalbano: dietro la maschera c’è una modernissima gestione del potere
DA UNO DEI NOSTRI INVIATI
PALERMO – Il padrino di Cosa Nostra catturato a due passi da Corleone sembra uscito da una pagina di Camilleri, dalle Cinquanta paia di scarpe chiodate, il racconto su un «re pastore» indicato da un brigadiere al commissario Montalbano, fra le pecore di una masseria, come un paciere che «amministra giustizia». A suo modo, «uomo di saggezza e d’esperienza». È su questa contraddittoria immagine tra affari milionari e vita francescana di Bernardo Provenzano che il New York Times ha chiesto lumi ad Andrea Camilleri. E lui s’è messo al computer per spiegare agli americani «perché il padrino viveva da povero». Proprio come ha fatto ieri sul Corriere della Sera il procuratore Piero Grasso spiegando che «il boss voleva dare l’esempio». L’antropologia della mafia diventa così indagine giudiziaria e letteratura insieme.
Sorpreso, Andrea Camilleri, dalla realtà che presenta il padrino con lo stesso cliché di un antico mafioso già visto nei film e nei suoi libri?
«Nessuna sorpresa. Me l’aspettavo così. Come vidi quel Cuntrera arrestato in Venezuela dopo le stragi del ‘92, uno di Siculiana, il paese vicino al mio, Porto Empedocle».
Il ministro delle Finanze di Cosa Nostra, si disse.
«Pure lui con la faccia e l’atteggiamento di un contadino. Ma solo nell’aspetto».
Scrutiamo oltre.
«Da Cuntrera ai tanti boss presi in questi anni, sono sempre insaccati in una sorta di divisa. Sì, la divisa del mafioso di campagna. Magari con qualche giacca di fustagno, trasandati, dando sempre questa immagine di provenienza pastorale».
Lo vede come un trucco, come sola apparenza?
«In realtà è solo l’immagine che danno. Perché poi sono modernissimi in quella che è la tecnica del malaffare, l’assegnazione degli appalti, la scelta di chi votare alle elezioni o su chi mettere come uomo giusto al posto giusto nei nodi cruciali dei fatti amministrativi. Allora, alla loro divisa di contadini sembra sovrapporsi il colletto bianco».
E non c’è etica sotto la divisa? «
Vogliono apparire in un certo modo, ma sono un’altra cosa. E poi questa vita ascetica che molti conducono un po’ è dettata dalla necessità della latitanza. È chiaro che se alloggiano in un albergo a cinque stelle rischiano di essere beccati subito. Più difficile in una casupola di campagna o dentro un pagliaio». «Costretti all’angolo», come dice il procuratore Grasso?
«Questa vita senza comodità è dettata dalla necessità. Non è che intendono dare sempre un esempio di moralità. Ma è anche vero che l’esercizio e il gusto del potere, inteso pure come potere di vita e di morte sulle persone, non solo il potere sugli affari, compensa in questi soggetti ad abundantiam il loro disagio di vita quotidiana».
Il potere meglio di una vita agiata?
«Noi siciliani abbiamo un bellissimo proverbio, “cumannari è meglio di futtiri”. E si adatta a perfezione, il comandare è meglio di qualsiasi altra cosa. Per loro non è importante che il potere stesso sia sorretto dall’immagine che noi abbiamo del potere».
Un potere ancora solidissimo, a suo avviso, quello del «re pastore» Provenzano?
«Quando queste persone vengono arrestate è perché si sfilaccia la rete di protezione fatta da politici, imprenditori, gente incensurata, gente insospettabile. E succede nel momento in cui il boss ha meno potere. Allora, se è vero il detto italiano per cui “morto un papa se ne fa un altro”, io credo che nella mafia il nuovo papa venga già fatto nel momento in cui il papa vecchio si ammala».
Non se ne aspetta la morte?
«Non si aspetta. E, quindi, dire “abbiamo decapitato la mafia” mi sembra eccessivo. Per questo grande arresto va resa tutta la nostra personale gratitudine ai magistrati e alle forze dell’ordine. Ma in realtà, e sempre secondo il mio parere, la cattura di Provenzano rappresenta solo le esequie del papa vecchio».
E i papabili? «Già in funzione».
Si fanno un paio di nomi.
«Sì, mi pare uno con 13 anni di latitanza e l’altro 12. Non so se le elezioni del nuovo papa vengono fatte in base all’anzianità di latitanza… Visto che felicemente non sono addentro alle loro regole, mi auguro che non bisogni aspettare altri trenta anni perché vengano catturati».
Che cosa consiglierebbe al commissario Montalbano?
«Intanto, mi auguro che i nuovi padrini si cambino le mutande con maggiore frequenza».
Le mutande? «Se è vero che Provenzano è stato catturato perché aveva bisogno di un paio di indumenti puliti, non possiamo aspettare che questo cambio avvenga ogni 43 anni».
Oltre alla «divisa» da contadino, c’è molta curiosità sulla «dieta Provenzano», miele, ricotta e cicoria…
«Mangia cicoria pure Rutelli… Ma è solo una battuta. Provenzano, poveraccio, è un uomo malato, uno a stecchetto, senza vino, senza niente».
Gli restano le preghiere e una ostentata veste mistica…
«Sì, le cinque Bibbie di cui quattro intonse e una molto usata, tre crocifissi al collo, il rosario, santini, padre Pio. E non c’era un “pizzino” nel quale, in qualche modo, non ci facesse entrare Dio. Qualcuno si può stupire che i mafiosi siano così religiosi, però bisogna cercare di capire che spesso la religione nei siciliani assume una certa inquietante forma di superstizione».
Dobbiamo rileggere le «Feste religiose» e pagane di Sciascia?
«Ricordiamoci di quel Pietro Aglieri con il prete che gli andava a dir Messa nel covo». Questi boss si convincono di agire per il Bene?
«Pensano di fare il bene per il bene di tutti. Non sono i soli, in Italia. Ma anche i nazisti avevano una cintura con scritto Gott mit uns (Dio con noi, ndr)».
Il «re pastore» non si sente comunque un po’ demodé?
«Il vecchio mafioso dentro di sé dice: “Noi abbiamo ormai sistemi arretrati, siamo come le vecchie 500 che vengono buttate fuori strada dalle Bmw dei nuovi mafiosi”. Perché credo che i vari Riina e Provenzano, in fondo, siano stati lasciati a campare nel loro redditizio orticello».
I veri affari vanno cercati oltre?
«Pensare che gli affari di una multinazionale com’è la mafia siano quei pochi appalti lasciati gestire al buon Provenzano significherebbe non avere capito niente dell’importanza della mafia».
E i nuovi padrini come li immagina? «La vera mafia oggi come oggi deve aver cambiato aspetto e abolito i rituali: l’appartenenza alla famiglia, il santino bruciato, la punciuta. No, credo che oggi la mafia agisca su Internet, che i padrini non si conoscano fra di loro, ma che abbiano in comune la password».
Felice Cavallaro
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PANORAMA 12/4/2006
«Provenzano? Lo hanno scaricato»
di Paolo Papi
«La mafia oggi è una grande azienda internazionale che muove ingenti capitali su scala internazionale. I personaggi coloriti come Provenzano con la seconda elementare in tasca sono legati a un mondo al tramonto e non servono più». Parla Giuseppe Carlo Marino, autore del best seller I padrini
Giuseppe Carlo Marino, professore ordinario dell’Università di Palermo, è forse il più autorevole «mafiologo» italiano. Ha scritto due bestseller, Storia della Mafia e I padrini (Newton & Compton), che ricostruiscono la storia della cultura mafiosa in Sicilia sulla base di un poderoso lavoro di ricerca documentale. Panorama.it lo ha intervistato dopo l’arresto del superboss di Corleone.
Professore, che tipo di capo mafia era Bernardo Provenzano?
Provenzano era un uomo della «nuova mafia», quella che ha rotto i ponti con la tradizione agraria dei gabelloti. Veniva dal gruppo della primula rossa di Luciano Liggio. A differenza degli efferati corleonesi di Totò Riina, che a un certo punto hanno voluto trattare lo Stato da pari a pari, aveva però capito una cosa: che per sopravvivere, bisognava ritornare ai vecchi metodi padrinali dei Vito Cascio Ferro e dei don Calogero Vizzini. A un rapporto di complicità e non di contrapposizione con la «società civile». A un accordo sotto traccia con le istituzioni, a metodi più «concertativi». Insomma, dopo le iniziative scriteriate di Riina degli anni ‘90, Provenzano ha saputo ricollegarsi con una cultura di massa profondamente radicata in certe zone della Sicilia.
Era davvero il «capo dei capi»?
Non voglio sottovalutare l’importanza del suo arresto. Siamo tutti grati alla magistratura e alle forze di polizia per quello che è accaduto. Semmai mi chiedo: dove lo hanno arrestato? A due chilometri da casa, in un cascinale, mentre mangiava un piatto di verdure con un vasetto di miele sul tavolo. La sua base insomma non era una grotta afgana, bensì la sua città, Corleone. Il luogo più naturale dove potevano trovarlo. Andava persino in Francia a farsi curare. La domanda che mi pongo è semplice: quali vantaggi offriva Provenzano al sistema che lo ha protetto per quarant’anni? E perché i suoi servigi a un certo punto non sono più stati ritenuti utili?
Sta dicendo che i nuovi boss hanno deciso di scaricarlo
Esattamente, non era più funzionale. Voglio ricordare che la mafia ha sempre reso dei servizi. Si pensi solo al ruolo di Lucky Luciano nelle operazioni di sbarco in Sicilia nel ‘43. Il Congresso degli Usa voleva addirittura dargli una medaglia. Si ricorda quello che è accaduto al bandito Salvatore Giuliano? Quando non servì più lo consegnarono. La stessa cosa potrebbe essere accaduta a Provenzano.
Quali prospettive si aprono ora e chi sono i suoi eredi?
Guardi, se le forze dell’ordine individuano altri due supercriminali come Matteo Messina Denaro e Salvatore Lo Piccolo fanno un errore. Sarebbero solo specchietti per le allodole.
Sta dicendo che sono solo delinquenti miliardari e di lusso che fanno il loro lavoro per «conto terzi»?
La verità è che si sta formando una nuova mafia internazionale che non ha più bisogno di personaggi coloriti come i Riina e i Provenzano, con la seconda elementare in tasca. E’ una società criminale nuova, più simile alla massoneria, che deve muovere capitali ingenti da un paese all’altro e si deve dare un volto presentabile per affrontare la globalizzazione.
C’è ancora la Cosa Nostra descritta da Tommaso Buscetta?
La vecchia Cosa Nostra aveva bisogno di un capo assoluto e di una gerarchia molto rigida. Il nuovo sistema ha bisogno semmai di un’oligarchia che deve muoversi su scala internazionale. Certo: continueranno a dare in subappalto il lavoro sporco ad alcuni manovali di lusso del crimine come Denaro e forse lo stesso Provenzano, o come i boss della mafia albanese, turca, colombiana. Ma i piani vanno tenuti distinti: quelli che contano veramente sono persone insospettabili e anche piacevoli, con cui tutti noi usciremmo volentieri a cena.
I clan e la «sicilitudine»: il legame storico reggerà ancora ancora con questa nuova mafia internazionale dei colletti bianchi?
A un livello basso, probabilmente sì. Ma – le ripeto – ormai stiamo parlando di una grande industria criminale, con un suo managment, con i suoi tecnici, con i suoi dirigenti. Il legame storico con la cultura siciliana derivava soprattutto dal mondo agrario dei gabelloti e dei proprietari terrieri. Un mondo che è ormai al tramonto. Questo, i mafiosi lo hanno capito bene. Lo deve capire anche lo Stato.
Qual è attualmente il business principale di questa nuova mafia?
Il controllo del mondo delle imprese e del commercio, attraverso il pizzo, è ancora molto forte. Lei si ricorderà la tassa Riina che veniva imposta agli imprenditori che volevano ottenere gli appalti. Ecco, specie nell’edilizia, è quello oggi il settore a più alta redditività mafiosa. Probabilmente è in calo l’interesse per il mercato della droga. Mentre sta diventano centrale il controllo sui flussi internazionali di capitale.
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dal sito: http://lnx.kontrokultura.org/index.php
[…] Poi, tra il 1993 e il 1994, si consuma un drammatico contrappunto Milano-Palermo. Mentre il sistema politico implode e le stragi prostrano l’Italia, Cosa nostra, che come dice Riina ha “fatto la guerra per fare la pace”, è alla ricerca di nuovi referenti politici. Anche in questo tesissimo momento, Dell’Utri ha un compito delicato: garantire ancora una volta il rapporto tra Milano e Palermo, mediare tra le richieste di Cosa nostra e le disponibilità del nascente partito di Forza Italia.
Alcuni tra i boss, dopo aver fondato il movimento Sicilia libera, si stavano avviando a sostenere una Lega del Sud, un movimento che avrebbe dovuto nascere, con appoggi massonici, dalla federazione delle diverse leghe sorte nelle regioni meridionali: avrebbe dovuto contrapporsi alla Lega Nord, ma di fatto concorrere insieme ad essa alla spartizione del Paese; e soprattutto avrebbe dovuto essere sensibile alle esigenze “politiche” di Cosa nostra. Dentro l’organizzazione criminale si svolge, allora, un’ampia consultazione, qualcosa di simile alle elezioni primarie, in cui le famiglie mafiose sono chiamate a esprimere la loro preferenza tra il progetto “sudista” e indipendentista di Sicilia libera e quello “milanese” e nazionale di Marcello Dell’Utri. Prevale quest’ultimo, giudicato più serio ed efficace.
Il capo di Cosa nostra dopo l’arresto di Riina, Bernardo Provenzano, si assume la responsabilità di dare il proprio appoggio al nuovo soggetto politico, a proposito del quale vi erano stati contatti con Dell’Utri: “Finalmente, si prospetta un discorso serio e che possiamo andare avanti”. La lunga stagione delle stragi s’interrompe e inizia la fase dell’inabissamento di Cosa nostra.
Provenzano prende la sua decisione perché ha avuto adeguate garanzie di risoluzione dei problemi dell’organizzazione criminale: “Pressione giudiziaria, sequestro dei beni, collaboratori di giustizia, regime carcerario duro”. Si stringe così un nuovo patto che prevede, da una parte, “garanzie politiche” (Provenzano promette che “entro dieci anni si sistemava tutto”) e, dall’altra, l’appoggio elettorale e la realizzazione della “strategia dell’inabissamento” (”Perché se noi continuavamo a fare attentati… a spargere sempre violenza, a fare azioni eclatanti, i riflettori delle forze dell’ordine e dell’opinione pubblica era sempre a controllare, a guardare, a giudicare a noi e le persone che ci dovevano aiutare… Per cui era importantissimo, se non vitale, che Cosa nostra intraprendesse un periodo di quiete, di tranquillità, in modo che non destasse attenzione nell’opinione pubblica né alle forze dell’ordine e della magistratura in modo particolare”: così racconta l’ultimo dei grandi collaboratori di giustizia, Nino Giuffrè).
Dell’Utri costruisce in pochi mesi il partito di Forza Italia che nel 1994 ottiene un clamoroso successo e porta Berlusconi per la prima volta al governo. Naturalmente i magistrati di Palermo non pretendono di spiegare con i rapporti siciliani tutto il successo di Forza Italia, che è spiegabile solamente con una complessa somma di concause politiche, economiche e sociali. Ma aggiungono a queste gli elementi emersi nelle indagini su Dell’Utri e i suoi rapporti con Cosa nostra. Concludendo che “Dell’Utri interviene come sa, secondo il suo stile, “alla grande”, senza mezzi termini, facendosi in prima persona protagonista e artefice di un progetto politico, quello che poi sfocerà nella nascita del movimento Forza Italia. Movimento rispetto al quale, intendiamo ribadirlo una volta per tutte (…), il pubblico ministero ha il massimo rispetto, così come ha il massimo rispetto nei confronti dei suoi militanti e dei suoi elettori. (…) La condotta e le finalità di Dell’Utri sono assai meno commendevoli di quelle degli altri fondatori del movimento politico; anzi, è provato che quelle di Dell’Utri furono direttamente condizionate da Cosa nostra, e dalla precipua finalità di agevolare la realizzazione degli interessi di Cosa nostra. Ed è per via di Dell’Utri soprattutto, e del ruolo da lui esercitato, che il movimento politico di Forza Italia fin dal suo sorgere costituì un punto di “interesse politico” per Cosa nostra: non certo perché Forza Italia fosse il partito della mafia, ma perché Forza Italia era il partito di Dell’Utri e quello a Cosa nostra bastava”.
I rapporti con la mafia proseguono anche negli anni successivi. Nel 1999, per le elezioni europee, Cosa nostra fa circolare tra i suoi uomini l’ordine di sostenere e votare proprio Dell’Utri, che dev’essere aiutato anche in relazione ai guai giudiziari che gli sono piovuti addosso (nel 1997 è iniziato il processo palermitano per collusioni con la mafia). Nella nuova Cosa nostra di Provenzano, Dell’Utri gode di un’inedita autorevolezza: “Una straordinaria conferma”, sostengono i magistrati di Palermo, “dell’attuale vigenza dei “patti” stipulati a suo tempo, fin dal 1994″.
Consulta anche:
http://www.agi.it/private/dossier.pl?d=20060411-20040