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Violenze al G8 di Genova: condannati i vertici della Polizia che però rimangono al loro posto.

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Da Il Fatto quotidiano del 21 maggio 2010

Genova: il coraggio della verità

Chissà cosa avranno pensato i dannati della scuola Diaz, leggendo le difese aprioristiche dei maggiori quotidiani italiani rispetto ai poliziotti coinvolti nella “macelleria”: un atteggiamento pavido e criticabile

Chissà cosa avranno pensato ieri leggendo i giornali italiani Mark Covell, Lena Zulkhe e Daniel Albercht. Erano arrivati poco più che ventenni a Genova il 21 luglio del 2001 per chiedere ai grandi della Terra un mondo migliore. La Polizia italiana entrò nella scuola nella quale erano accampati insieme con decine di altri ventenni e spezzò i loro sogni e le loro ossa. A Mark, giornalista inglese freelance, i manganelli fratturarono la mano, le costole, la testa e una mezza dozzina di denti. A Daniel, studente di violoncello a Berlino, provocarono una ferita alla testa tanto profonda da generare un’emorragia. La tedesca Zulkhe, fotografata mentre usciva in barella è rimasta il simbolo della notte folle della scuola Diaz. Martedì scorso esultava in aula perché finalmente aveva scoperto la giustizia italiana nei Tribunali.

Poi ha letto sui giornali che i condannati resteranno al loro posto, ai vertici della Polizia, e probabilmente le sarà venuto un dubbio. Chi crede ancora che la violenza sia riservata al monopolio della Polizia per difendere i cittadini e non per garantire l’impunità del Principe, chi punta sulla stampa come ultima sentinella contro la menzogne del governo, non può accontentarsi di quello che ieri ha letto sui quotidiani. Gli uomini più potenti della Polizia sono stati condannati per reati gravissimi che inquinano l’essenza della loro missione e cioè l’uso corretto della forza pubblica e la difesa della verità. Eppure il governo ha deciso di lasciarli al loro posto. Il capo della Divisione Anticrimine, Francesco Gratteri, il capo del Servizio Centrale Operativo, Gilberto Caldarozzi, e il capo del dipartimento analisi del Servizio segreto civile interno, Giovanni Luperi sono stati condannati rispettivamente a quattro anni, tre anni e otto mesi e quattro anni per falso. La Corte di appello non ha ritenuto infondate nemmeno le accuse nei loro confronti per calunnia e arresto illegale.

Per questi reati, esattamente come è accaduto per Giulio Andreotti per le accuse di concorso con la mafia fino al 1980, è stata dichiarata solo la prescrizione. Certo, non sono stati ritenuti colpevoli delle lesioni subite da Mark e dai suoi amici, ma della formazione delle false prove che dovevano rappresentare l’alibi per quella violenza: le famose molotov portate su ordine non si sa di chi da due agenti all’interno della scuola. In primo grado i dirigenti erano stati assolti perché secondo il tribunale l’accusa non aveva provato che gli imputati eccellenti fossero a capo dell’operazione e la condanna era stata limitata solo ai loro sottoposti. La notizia che il governo e il capo della Polizia Antonio Manganelli abbiano deciso di lasciare al loro posto il numero due e il numero tre della pubblica sicurezza, è stata riportata in modo “piatto”, senza alcun commento, dai maggiori quotidiani italiani. Nessuna richiesta di dimissioni, nessuna critica: “I condannati del G8 restano al loro posto”. I più attenti hanno osato ricordare al capo della Polizia Antonio Manganelli la lettera scritta nel 2008 a Repubblica dopo l’assoluzione in primo grado per i suoi dirigenti nella quale prometteva “spiegazioni su quel che realmente accadde a Genova” e aggiungeva: “Abbiamo ai vertici dei reparti investigativi e operativi persone pulite. Io sono il loro garante”.

Nessuno però ha ricordato che dalla Polizia non c’è stata nessuna verità sulla vergogna della scuola Diaz. Nessuno dei principali collaboratori di Manganelli ha accettato di deporre in tribunale, avvalendosi della facoltà di non rispondere come un Silvio Berlusconi qualsiasi. Manganelli è stato un garante sì, ma della Polizia e non dei cittadini. Gratteri e Caldarozzi sono stati promossi senza tenere in alcun conto il processo pendente. All’indomani della sentenza con quella lettera il Capo si metteva in gioco con tutto il peso della sua carica e della sua storia personale di grande investigatore e servitore dello Stato. Tutti i giornali ieri ricordavano che anche Gratteri e Caldarozzi sono tra i migliori poliziotti italiani. Gratteri ha messo le manette a Leoluca Bagarella e Giovanni Brusca, ha partecipato alla caccia ai brigatisti che uccisero Biagi e D’Antona, mentre Caldarozzi era nella squadra che ha preso il boss di Catania, Nitto Santapaola e, soprattutto, è stato il regista dell’arresto del numero uno di Cosa Nostra, Bernardo Provenzano. Tutte queste medaglie però non possono bastare a coprire la macchia che oggi c’è sulla loro divisa.

Per i cacciatori devono valere le stesse regole delle prede. Anzi, a loro è legittimo chiedere di più. In un paese normale tutti i dirigenti presenti alla scuola Diaz, mentre la Polizia falsificava le prove e massacrava decine di giovani innocenti, non avrebbero dovuto far carriera. Invece sono stati promossi. Ora quella scelta è stata sconfessata da una sentenza. I vertici della Polizia escono indeboliti da quelle condanne che aumentano la loro dipendenza dal potere politico che gli sta offrendo una copertura possente, contro tutti. Il fatto che i migliori giornalisti giudiziari italiani, gli stessi che hanno scritto decine di articoli sui successi investigativi di questi grandi poliziotti, non prendano atto di questa debolezza non rassicura affatto. Anzi, inquieta ancor di più.

Da il Fatto Quotidiano del 21 maggio

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