Antonio Ingroia: “Sono vivo grazie alle intercettazioni”
Stampa questo articoloL’INTERVISTA al Procuratore antimafia di Palermo, Antonio Ingroia: “Sono vivo grazie alle intercettazioni. Con la nuova legge Riina e Provenzano sarebbero ancora liberi, si mettono paletti che impediranno di arrivare dove si deve arrivare”
di ATTILIO BOLZONI
ROMA – Il capo della mafia siciliana Bernardo Provenzano è imprendibile, ricercato da quarantasei anni e nove mesi. Dicono che si nasconda a un passo dalla sua casa di Corleone. È un fantasma: nessuno riesce mai a scovarlo. Una piccola folla ha applaudito ieri mattina nella parrocchia di Pagliarelli la bara di Gianni Nicchi detto Tiramisù, l’astro nascente di Cosa Nostra palermitana ucciso a colpi di pistola dai sicari del clan Lo Piccolo. Gli artificieri dei carabinieri hanno disinnescato l’ordigno piazzato sotto la casa del procuratore aggiunto Antonio Ingroia dagli uomini di Mimmo Raccuglia, il boss di Altofonte che dal 2000 è diventato il più pericoloso latitante al servizio di Totò Riina. Sarebbe andata cosi. Sarebbe andata così per legge. “L’ho scampata per un pelo”, racconta divertito – e poi neanche tanto – Antonio Ingroia, che era sulla lista nera di Raccuglia, mentre ricorda tutto ciò che (non) si sarebbe mai verificato in questi ultimi anni in Sicilia con il decreto voluto dal governo.
Il procuratore aggiunto l’ha scampata per un pelo grazie a una telecamera. Una di quelle che era puntata su un casolare di Calatafimi dove aveva trovato rifugio Mimmo Raccuglia, il mafioso che era pronto a farlo saltare in aria. Una telecamera che, qualcuno, adesso vorrebbe spegnere per sempre. Dice Ingroia: “Oggi l’installazione di una telecamera in un luogo pubblico viene autorizzata dal pubblico ministero per esigenze investigative, d’ora in avanti – se mai dovessero approvare anche questo – ci vogliono gli stessi gravi indizi di reato previsti per le intercettazioni ambientali e telefoniche per poterlo fare”. Si chiede Ingroia: “Ma come si fa ad avere la certezza che dentro un casolare ci sia un latitante se non si piazza una telecamera che vede chi entra e chi esce?”.
Mimmo Raccuglia sarebbe oggi ancora là, a cavallo fra le province di Palermo e di Trapani, a trafficare con il suo esplosivo. E Renato Cortese, il poliziotto che per otto anni ha inseguito il Padrino di Corleone, sarebbe ancora sulle colline davanti alla Montagna dei Cavalli disteso fra le sterpaglie e sotto gli ulivi a cercare il niente. Il più fortunato è stato però Gianni Nicchi, con quella telecamera che ancora c’era e l’ha fatto finire dentro, ha evitato le vendette dei “vecchi” di San Lorenzo.
I mafiosi sono e saranno molto contenti. E fra pochi giorni parleranno a ruota libera e senza paura. Nei salotti delle loro case, nei summit in campagna, sulle loro automobili. Tanto non li ascolterà più nessuno. Libertà di parola per loro e libertà di silenzio per altri. Uno come Carmelo Amato, per esempio, oggi sarebbe in giro tranquillamente per il Borgo, il suo quartiere, a dispensare consigli ai picciotti. Tutto quello che aveva detto lo potrebbe ripetere pari pari ma questa volta senza pericolo: “Mi sono comprato l’apparecchio per le cimici, ogni tre giorni voglio controllare pure le macchine, c’è guerra, bisogna stare attenti e aprirei gli occhi perché è pieno di sbirri e di.. di..”. Di “spilli”.
Così i mafiosi chiamano le microspie. Palermo un tempo – all’epoca delle stragi – era come un grande microfono. “Ma d’ora in poi”, spiega il procuratore Ingroia, “per infilare una cimice in un’automobile occorre la prova che sia in corso in quel luogo un’attività criminale”. Come si farà allora? “È praticamente impossibile dimostrare che c’è in corso un’attività criminale dentro un’auto se dentro quell’auto non è stato piazzato un microfono”. Dopo la telecamera lo “spillo” nell’auto, prima dello “spillo” i telefoni. Indagini di mafia che non si sarebbero mai concluse e soprattutto che non si sarebbero mai cominciate.
Come quella su Vincenzo Zummo, prestanome storico di Vito Ciancimino. Gli hanno sequestrati beni di mafia per decine di milioni di euro partendo da un’inchiesta che, all’apparenza, non aveva niente a che a fare con la mafia. “Ma poi siamo arrivati sempre a Cosa Nostra. Con la nuova legge si introducono paletti che non ci permetteranno più di arrivare dove si deve arrivare”, dice ancora Ingroia che qualche mese fa ha scritto per Stampa Alternativa il libro “C’era una volta l’intercettazione”, un saggio sulle paure della classe politica che a tutti i costi vuole riformare – “controrifomare”, scrive lui – tutto il sistema delle intercettazioni. Chi avrebbe mai saputo sennò degli incontri di Marcello Dell’Utri con i falsi pentiti Chiofalo e Cirfeta che – econdo la procura – erano al centro di una combine per screditare i pentiti veri?
Chi avrebbe mai saputo cosa faceva il governatore della Sicilia Totò Cuffaro in un retrobottega di un negozio di abbigliamento di Bagheria con Michele Aiello, il “re” delle cliniche private legato ai mafiosi di Bernardo Provenzano che con Totò stilava il tariffario della Sanità? Chi avrebbe mai scoperto che il Palazzo di Giustizia di Palermo era infestato di talpe. Senza quelle – le intercettazioni – Totò Cuffaro oggi sarebbe ancora l’amatissimo presidente di tutti i siciliani.