ATTENZIONE: La pubblicazione degli articoli continua sul sito www.altrabeneventopossibile.it
You Are Here: Home » Criminalità » Il disegno di legge sulle intercettazioni favorisce le ecomafie

Il disegno di legge sulle intercettazioni favorisce le ecomafie

Stampa questo articolo Stampa questo articolo

23/04/2010 di Dina Galano Terranews.it

Il ddl sulle intercettazioni, ora all’esame della commissione Giustizia del Senato, penalizzerà anche la lotta alle ecomafie.
La denuncia del procuratore capo di Civitavecchia, Gianfranco Amendola.

<<Così non potremo mai combattere l’ecomafia>>. Pochi strumenti e un solo delitto per la tutela dell’ambiente, quello che punisce il traffico illecito dei rifiuti. Il nuovo regime delle intercettazioni telefoniche e ambientali è ancora fermo in commissione Giustizia al Senato, ma già promette di produrre le sue amare conseguenze anche sulla possibilità di perseguire i crimini ambientali, «anche se ancora non si conoscono i reati per i quali lo strumento delle intercettazioni sarà escluso». A parlare è il procuratore capo di Civitavecchia Gianfranco Amendola, autore di molte inchieste giudiziarie in materia, con all’attivo numerosi libri di legislazione penale ambientale.

Procuratore, quanto inciderà la nuova disciplina delle intercettazioni sulla perseguibilità dei reati ambientali?

A noi la questione interessa poco, perché le intercettazioni oggi sono contemplate soltanto nell’ipotesi di traffico illecito di rifiuti, che è l’unico delitto contro l’ambiente che esiste nel nostro codice penale. Con il testo che stanno discutendo probabilmente non sarà più possibile attivarle neanche per questo delitto. Ma la maggior parte degli illeciti ambientali è punita come contravvenzione per la quale, già allo stato attuale, non è previsto l’utilizzo di questo strumento. Le intercettazioni, certo, svolgono ancora un’azione importantissima per quanto riguarda il traffico illecito dei rifiuti e la lotta all’ecomafia, ma in un Paese in cui c’è in giro di tutto, noi abbiamo pochissime armi con cui combattere.

Che ripercussioni avrà il limite temporale di due mesi fissato nel testo?

Questo aspetto riguarda tutti i reati. Le osservazioni dell’Associazione nazionale magistrati sono convisibili, sia quelle che criticano i tempi sia i requisiti richiesti per autorizzare le intercettazioni ambientali. Si tratta di punti che depotenziano ogni attività di indagine, anche quella che riguarda i reati ambientali.

Come giudica lo stato attuale della normativa in materia d’ambiente?

Tutti i magistrati che si occupano di questo settore, così come gli ambientalisti, ripetono da anni la necessità di prevedere i delitti contro l’ambiente, dall’inquinamento delle acque a quello dell’aria. Dall’Europa sono arrivate ripetute sollecitazioni ma, sia prima con il governo Prodi poi con gli altri governi, nessuno è mai riuscito a farli passare. C’è stato un momento, quando Alfonso Pecoraro Scanio era ministro dell’Ambiente, in cui un testo era riuscito ad arrivare in Consiglio dei ministri per poi, però, non avere alcun seguito.

Cosa si sta facendo in questa legislatura?

Questo governo ha approvato un disegno di legge che ha tolto quel poco di sanzione che era prevista, e quindi non mi sembra che si stia procedendo sulla linea giusta. Attualmente non c’è nessuna novità, le uniche cose fatte sono peggiorative. Hanno perfino eliminato la sanzione penale per il superamento dei limiti delle acque pochi giorni fa. Intendiamoci, per me, queste ipotesi possono essere anche depenalizzate purché siano inseriti veri delitti contro l’ambiente con pene gravi. (Diana Galano, Terra)

******************

Da Nannimagazine di Valentina Marsella (08-08-2009)

Ecomafia: norme carenti e indagini a rischio con il ddl intercettazioni Il coordinatore dell’Osservatorio Parlamentare di Legambiente: “Molti reati ambientali sono puniti con semplici contravvenzioni. Piccoli passi avanti sono nella lotta al traffico illecito di rifiuti e agli incendi dolosi”.

Non esiste una tutela penale ambientale seria, e molti reati commessi contro il patrimonio naturale non sono ancora contemplati come delitti, ma puniti con semplici contravvenzioni. E il risultato è che gli autori degli eco-crimini continuano ad agire indisturbati in un contesto socio-economico dove le lobby industriali e gli interessi produttivi vincono sul bene primario della salute dei cittadini.

A tracciare l’attuale quadro normativo è Antonio Pergolizzi, responsabile dell’Osservatorio Parlamentare sulla Legislazione Ambientale (Oplà) di Legambiente, nato per monitorare l’attività delle Camere e stimolare iniziative legate alla lotta alle associazioni criminose che si arricchiscono a scapito della vita umana.

“Da un punto di vista normativo – rileva Pergolizzi – purtroppo non sono stati fatti passi da gigante, perché la maggior parte dei reati è ancora di tipo contravvenzionale e l’efficacia deterrente è pari al nulla. Crimini ambientali terribili, veri attentati alla salute dei cittadini, vedono ancora pene risibili, a eccezione di quelli relativi al traffico di rifiuti e agli incendi boschivi dolosi. In questi due settori infatti si sono fatti piccoli passi a fronte di un sistema normativo ancora molto carente”.

Sui reati legati alle ‘attività organizzate’ per il traffico illecito di rifiuti, introdotto con l’articolo 53 bis del decreto Ronchi (22/1997), una vera e propria legge quadro in materia, si sono avuti i primi importanti risultati, rafforzati nel 2006 con l’articolo 260 del Codice dell’Ambiente, che ha previsto pene più severe. Riguardo gli incendi boschivi, un’evoluzione si è riscontrata con la legge 275/2000, che ha introdotto pene e sanzioni nei casi di incendi boschivi (dai 4 ai 10 anni se dolosi, da 1 a 5 anni se colposi), mentre la legge quadro 353/2000 ha introdotto norme sulla prevenzione dei roghi tramite un piano regionale, la previsione e prevenzione del rischio, la formazione e l’informazione, la lotta attiva contro gli incendi.

Iniziative legislative che hanno registrato buoni risultati, spiega il responsabile di ‘Oplà’, “perché si è data alle forze dell’ordine maggiore libertà nelle indagini, soprattutto con lo strumento delle intercettazioni, che hanno dato i loro frutti nel contrasto del fenomeno”.

Ora però questi passi avanti rischiano di essere vanificati: “Il ddl Alfano sulle intercettazioni passato alla Camera – spiega Pergolizzi – escludendo dalla lista dei reati sia gli incendi dolosi che il traffico di rifiuti, limita di molto questo strumento, a eccezione che si tratti di indagini di mafia e terrorismo. Ma non si può subito comprendere se un’inchiesta coinvolga o meno esponenti di clan della malavita organizzata; l’uso delle intercettazioni è importante proprio per avere un quadro più veloce e preciso sul tipo di crimine che si sta perseguendo”.

Ecco perché Oplà ha presentato una proposta di non escludere i due reati dalla lista. Per il momento comunque, il ddl è nel cassetto. “Noi siamo in attesa dei suoi sviluppi – avverte il coordinatore dell’Osservatorio – sperando che un provvedimento giudicato da molti incostituzionale non abbia seguito”. “Intanto – aggiunge – da ormai 15 anni chiediamo che tutti i reati contro l’ambiente siano inseriti nel codice penale e diventino delitti a tutti gli effetti, e non semplici contravvenzioni”.

Un altro importante passo verso la tutela giuridica del patrimonio naturalistico, spiega Pergolizzi, potrebbe essere fatto con il recepimento da parte dell’Italia, entro il prossimo dicembre, della Direttiva Ue 2008/99/Ce del Parlamento europeo e del Consiglio del 19 novembre 2008 sulla tutela penale ambientale. Una direttiva, aggiunge il coordinatore di Oplà, che ogni Stato membro deve recepire secondo i propri canoni, e “come verrà recepita nel nostro Paese – commenta – non si sa. Spuntano sempre divieti o difficoltà quando si tratta di inserire nel Codice penale nuovi reati”. Il documento introduce regole comuni sui crimini di settore e consente di usare “efficaci metodi d’indagine e di assistenza, all’interno di uno Stato o tra diversi Stati membri”.

E la tutela dell’ambiente, si legge nel testo del provvedimento, “esige, in particolare, sanzioni maggiormente dissuasive per le attività che danneggiano l’ambiente. Pertanto tali condotte devono essere perseguibili penalmente in tutto il territorio della Comunità qualora siano state poste in essere intenzionalmente o per grave negligenza”. Disposizioni che dovrebbero essere soggette a misure di diritto penale per garantire che le norme siano pienamente efficaci.

Un duro colpo alle ecomafie è stato inferto due anni fa, con l’introduzione dei reati di associazione a delinquere finalizzata al crimine ambientale, sanzionati con le stesse pene previste dal Codice Penale nell’articolo 416, aumentate fino a un terzo. Il disegno di legge approvato il 24 aprile del 2007, ribattezzato ‘Ddl sugli eco-reati’, ha infatti previsto multe fino a 250 mila euro e carcere fino ai dieci anni, più le aggravanti, per i soggetti e le organizzazioni che sfruttano questo bene primario per scopi tutt’altro che leciti. Cinque gli articoli del testo normativo, dove i reati sono strutturati in base al crescente grado di offesa al bene giuridico tutelato: dal pericolo concreto, al danno, fino al disastro ambientale.

Il provvedimento ha così inserito nel Codice Penale una serie di fattispecie dolose, in alcuni casi previste in forma colposa, come il traffico illecito di rifiuti e di materiale radioattivo o nucleare e l’abbandono di esso, il disastro, la frode e l’inquinamento ambientale, l’alterazione del patrimonio naturale, della flora e della fauna e infine i crimini in forma organizzata, le cosiddette ‘ecomafie’.

Ma accanto al giro di vite per gli eco-criminali, il ddl ha previsto meccanismi premiali per coloro che attivandosi, impediscono, eliminano o riducono i danni ambientali: causa di non punibilità, ravvedimento operoso, bonifica e ripristino dello stato dei luoghi. Tra le novità previste, anche la sanzione per ‘”danno economico”‘ che ha previsto la reclusione da due a sei anni e multe da ventimila a sessantamila euro quando l’eliminazione del danno risulti di particolare complessità sotto il profilo tecnico, ovvero particolarmente onerosa o conseguibile solo con provvedimenti eccezionali.

Ma già un anno prima, nel 2006, la sensibilizzazione dell’opinione pubblica sul fenomeno, aveva spinto le forze politiche a emanare il cosiddetto Codice dell’Ambiente, introdotto con il decreto legislativo 152/2006 e modificato con il dlgs 4/2008. Nel raccogliere in un unico testo le leggi anteriormente emanate in materia, il Codice ha cercato di approntare una disciplina in materia di tutela di acque, aria, suolo e sottosuolo, introducendo reati finalizzati a punire condotte lesive dei siffatti beni della collettività. Con l’art. 260 si sono previste pene da uno a sei anni di reclusione per gli autori del ‘traffico illecito di rifiuti’, e in particolare da tre a otto se si tratta di rifiuti altamente radioattivi.

*********************

Fonte : LEGAMBIENTE

Salviamo la verità sui crimini dell’ecomafia. Traffico illecito di rifiuti e incendio boschivo doloso sono due delitti devastanti che ogni anno concorrono a danneggiare gravemente il territorio italiano mettendo a rischio l’incolumità delle persone.

Il Ddl Alfano attualmente in discussione alla Camera rischia di azzerare il lavoro svolto dalla magistratura e delle forze dell’ordine, escludendo questi due delitti dalla lista dei reati per i quali è concesso l’uso delle intercettazioni. E’ una scelta profondamente sbagliata, anche per la pericolosità delle organizzazioni criminali che si dedicano a queste attività illecite.

1. Premessa

I reati di traffico illecito di rifiuti e di incendio boschivo doloso devono essere “salvati” dal disegno di legge sulle intercettazioni. Per questo Legambiente lancia un appello, perché due tra i crimini ambientali più gravi vengano inseriti nel Ddl Alfano tra i delitti per i quali magistratura e forze dell’ordine possano continuare ad avvalersi di strumenti d’indagine fondamentali, come le intercettazioni. Si tratta di reati che sono quasi sempre appannaggio della criminalità organizzata, che grazie a queste azioni si arricchisce e alimenta nuovi racket, e che rappresentano uno sfregio spesso irreparabile al territorio e alle comunità che ci vivono.

Chi si cimenta nel business del traffico e dello smaltimento illegale dei rifiuti avvelena l’aria, contamina le falde acquifere, inquina i fiumi e le coltivazioni agricole, minaccia la salute dei cittadini, contaminando con metalli pesanti, diossine e altre sostanze cancerogene prodotti che arrivano sulla tavola delle famiglie. Chi dà fuoco boschi è colpevole di un delitto premeditato dalle conseguenze devastanti: basta lo scellerato gesto di un incendiario per bruciare ettari ed ettari di ecosistema, devastare aree di straordinario interesse naturalistico, mettere in ginocchio l’industria del turismo, costringere la gente ad abbandonare le proprie case minacciate dalla fiamme e, come ci ricordano i drammatici eventi dello scorso anno, uccidere.

E’ recente l’introduzione in Italia di sanzioni finalmente adeguate alla gravità di questi fenomeni criminali. I risultati sono sotto gli occhi di tutti: grazie alla possibilità di svolgere indagini davvero penetranti, anche facendo ricorso alle intercettazioni, sono stati individuati, in particolare per quanto riguarda il traffico di rifiuti, responsabili di veri e propri disastri ambientali, si è fatta luce sui metodi di smaltimento illecito, sono state individuate collusioni nella pubblica amministrazione e connessioni con i clan. Ma anche la lotta ai piromani ha conosciuto risultati significativi, resi possibili grazie agli strumenti d’indagine di cui possono avvalersi forze dell’ordine e magistratura.

Sarebbe davvero grave se, invece di inserire nuovi delitti contro l’ambiente nel Codice penale, come ci richiede la stessa Unione europea, Governo e Parlamento decidessero di azzerare di fatto l’efficacia delle sanzioni già introdotte contro gli eco criminali. In questo dossier raccogliamo, come sempre, i numeri e i fatti che dovrebbero indurre tutte le forze politiche a sostenere una richiesta di buon senso: inserire questi delitti tra quelli ritenuti di particolare gravità e allarme sociale e, meritevoli, quindi, di essere contrastati anche con il ricorso alle intercettazioni telefoniche e ambientali. Basterebbe introdurre un semplice emendamento del Ddl Alfano, attualmente in discussione alla Camera. Sarebbe, crediamo, un atto di responsabilità e una dimostrazione concreta da parte dello Stato di voler fare sul serio nella lotta all’ecomafia.

2. I numeri della “Rifiuti Spa”

Sono numeri importanti quelli che raccontano sei anni di lotta all’Ecomafia sul fronte del traffico e dello smaltimento illecito di rifiuti nel nostro Paese grazie alla introduzione dell’articolo 53bis del decreto Ronchi, oggi articolo 260 del Codice dell’Ambiente. A partire dal 2002 sono state condotte 109 inchieste, che hanno portato a 679 arresti e alla denuncia di 2.277 persone tra imprenditori, autotrasportatori, funzionari pubblici e tecnici corrotti, intermediari nella gestione dei rifiuti. Vere e proprie organizzazioni criminali che operavano i loro traffici in 19 regioni, cioè in tutta Italia fatta eccezione per la Valle d’Aosta.

Si può dire senza tema di smentite che tutte queste operazioni sono andate a buon fine anche e soprattutto grazie allo strumento delle intercettazioni telefoniche e ambientali che le Procure hanno potuto utilizzare nel loro lavoro. Questo importantissimo strumento di indagine viene cancellato dal disegno di legge Alfano attualmente all’esame del Parlamento, che limita il ricorso alle intercettazioni telefoniche per pochissimi reati. Una volta entrato in vigore, magistratura e forze dell’ordine non potrebbero più contrastare con efficacia gli sporchi traffici di chi accumula profitti avvelenando il Paese.

Parliamo di un fenomeno che alimenta il redditizio giro d’affari delle mafie (stimato per difetto intorno ai 7 miliardi di euro), perché accanto ai business tradizionali, come quelli della droga e degli appalti, le cosche criminali, con la camorra in primo fila, hanno da alcuni anni scoperto che con la monnezza si possono fare un sacco di soldi. Una realtà che non conosce confini, diffusa da nord a sud in tutto il paese, che arriva a spedire carichi di sostanze pericolose in Cina, in India e in Africa. Una intricata rete criminale che conta su pratiche collaudate di corruzione, frode, evasione fiscale. In cui imprenditori e amministratori pubblici, non sempre inconsapevoli, affidano i rifiuti a pseudo professionisti dediti alla truffa dello smaltimento illecito. Una pratica spregiudicata, che annienta l’economia pulita, quasi sempre condotta attraverso la falsificazione dei documenti di accompagnamento, il c.d. giro bolla, che trasforma rifiuti speciali, spesso nocivi, in rifiuti, per così dire, innocui.

Nel 2005 i dati diffusi dall’Apat denunciavano la scomparsa nel nostro Paese di 19,7 milioni di tonnellate di rifiuti, l’equivalente di una montagna di tre ettari di base e alta 2mila metri. Un dato impressionante, ma in calo rispetto all’anno precedente, a testimonianza degli ottimi risultati raggiunti dalle forze dell’ordine. Sostanze pericolose che finiscono il più delle volte per essere spacciate per fertilizzanti e sparse sui terreni coltivati, oppure diventano una economica alternativa ai materiali edili, vanno a riempire le cave dismesse, vengono gettati nei corsi d’acqua minori e quindi nei fiumi, oppure stoccati in discariche abusive e capannoni fantasma.

2.1 Il “Giro d’Italia” dei veleni

Basta scorrere l’elenco delle centinaia d’inchieste condotte dal 2002 ad oggi per comprendere quanto siano diffusi e ramificati questi traffici. E, soprattutto, quanto siano letali per l’ambiente e la salute dei cittadini. Nel febbraio del 2002 con l’operazione Greenland i carabinieri di Spoleto hanno smascherato l’attività criminosa di una banda che, falsificando i documenti di accompagnamento, trasportava rifiuti pericolosi, in particolare metalli pesanti, provenienti da alcune aziende del Nord Italia che andavano a concimare i terreni agricoli dell’Umbria sotto forma di fertilizzanti.

L’operazione Banda Bassotti, condotta a Milano nel 2002 grazie alle indagini del Noe di Milano e del Corpo Forestale dello Stato di Brescia, ha portato all’arresto di 10 persone dedite all’interramento di rifiuti speciali negli scavi di alcuni cantieri della provincia, incluso quello per la realizzazione del depuratore di Nosedo. Arresto anche per 17 dirigenti del petrolchimico Enichem di Priolo e per un funzionario della Provincia di Siracusa e denuncia per altre 30 persone. Questo l’esito dell’operazione Mar Rosso che nel gennaio del 2003 ha portato la Guardia di Finanza del capoluogo siciliano a scoprire un traffico illegale di sostanze pericolose contenenti mercurio condotto attraverso la falsificazione dei documenti e dei certificati di analisi. Così rifiuti declassificati finivano anche nelle discariche per inerti in Sardegna, a Ravenna, Crotone e Brindisi. Una parte risulta sia stata anche smaltita direttamente nei tombini della fabbrica e quindi in mare. Il grave coinvolgimento dei vertici della società sarebbe confermato dalle intercettazioni telefoniche e ambientali.

Le 22 persone fermate nell’ambito dell’operazione Re Mida a Napoli nel novembre del 2003 dai carabinieri di Caserta smaltivano rifiuti industriali di aziende e consorzi di gestione dei rifiuti solidi urbani di alcune regioni del Nord, simulando il trattamento previsto dalla legge e in realtà scaricandoli tal quali in alcune cave e in aree agricole sotto il controllo degli stessi indagati. Successive indagini hanno scoperto la presenza di considerevoli quantità di sostanze cancerogene, tra cui derivati dalla lavorazione degli idrocarburi, in terreni coltivati. Uno dei filoni dell’inchiesta ha portato alla luce il coinvolgimento di alcuni esponenti del clan camorristico dei Casalesi.

La clamorosa indagine Eldorado condotta dai carabinieri del Noe di Milano ha disposto la custodia cautelare di 22 persone che operavano illegalmente con guadagni milionari portando rifiuti speciali provenienti dalla Campania in Lombardia, da dove, dopo aver falsificato i documenti di viaggio, proseguivano il viaggio tornando al sud, in particolare in Puglia, dove venivano smaltiti in terreni agricoli.

Anche l’operazione Houdinì, del Noe di Venezia ha portato in carcere 11 persone e interrotto un traffico di rifiuti pericolosi attraverso il classico sistema del “giro bolla”, che consentiva dopo un abile depistaggio di smaltire illegalmente in impianti di stoccaggio e di compostaggio nelle regioni del centro-sud.

Nell’aprile del 2004 le indagini condotte dal Corpo Forestale dello Stato hanno consentito alla Procura di Bari ad arrestare 3 persone e a denunciarne 11 nell’ambito dell’inchiesta Alta Murgia. Sull’area del Parco dell’Alta Murgia di Bari erano state smaltite decine di migliaia di tonnellate di rifiuti, anche speciali. Le analisi di alcuni terreni coltivati a grano hanno verificato la presenza di alte concentrazioni di cromo, cadmio e piombo tanto da indurre a sequestrare alcune partite di cereali. Con l’operazione Terra Mia la Procura di Nola per la prima volta contesta in Campania il reato di disastro ambientale: oltre due anni di lavoro investigativo per provare l’esistenza di un vasto traffico illecito di rifiuti e disegnare la mappa del “triangolo dei veleni”, tra il territorio dei comuni di Nola, Marigliano e Acerra. Scoperte 25 discariche abusive e coinvolte nell’inchiesta 34 persone.

Tutta romagnola la truffa scoperta dalla procura di Forlì con l’inchiesta Rudolph nel settembre del 2004. Qui un’organizzazione di imprenditori, funzionari della Asl e dirigenti della Provincia smaltiva migliaia di tonnellate di fanghi tossici del depuratore non trattati direttamente sui terreni agricoli: 20 le persone sottoposte a fermo e 20 quelle denunciate. Fanghi di cartiera, terre inquinate da Pcb, ceneri di lavorazione dell’acciaio e di termodistruttori, rifiuti farmaceutici provenienti da impianti di tutta Italia per essere smaltiti a Viterbo in ex cave in attesa di essere ripristinate. Lo ha scoperto la Procura del capoluogo laziale al termine dell’inchiesta Giro d’Italia che nel maggio 2005 ha portato all’arresto di 9 persone e alla denuncia di altre 37.

Marco Polo, un lungo viaggio da Napoli alla Cina. Nel settembre del 2005 sono stati sequestrati nel porto del capoluogo partenopeo 20 container di rifiuti speciali spacciati per materie prime e pronti a salpare alla volta di Hong Kong. L’operazione Mare Chiaro, dopo due anni di indagini, nel marzo del 2006 ha portato in galera 16 persone e alla denuncia di 78 con l’accusa di associazione a delinquere, disastro ambientale, falso e traffico illecito di rifiuti per lo smaltimento di sostanze altamente pericolose provenienti dalle lavorazioni industriali nelle acque del mare Adriatico. Centro nevralgico dell’azione criminale era l’Abruzzo, ma le aziende coinvolte operavano anche in Puglia, Sicilia, Lazio, Molise, Marche, Toscana, Lombardia e Veneto. Sempre nella primavera del 2006 con Toxic il Comando provinciale della Guardia di Finanza di Palermo ha smascherato l’attività criminale di una banda dedita allo smaltimento illegale di rifiuti ospedalieri conferiti da ospedali e laboratori medici in siti non autorizzati. Con l’operazione Grande Muraglia nel luglio del 2006 i carabinieri del Noe di  Reggio Calabria e dell’Ufficio dogane del Porto di Gioia Tauro hanno sequestrato 135 containers che contenevano la bellezza di 3.170 tonnellate di rifiuti speciali pronti a partire per la Cina, l’India, la Russia, la Liberia e la Nigeria.

Nel novembre del 2006, l’operazione Ombre Cinesi ha sgominato un traffico di rifiuti pericolosi, principalmente scarti di materie plastiche, che una volta “ripuliti” sulla carta finivano in alcune fabbriche di giocattoli della provincia del Guandong. Al centro dell’organizzazione una ditta lombarda che coordinava tutte le fasi, dal recupero del materiale allo stoccaggio, alla spedizione in Cina. Sette le misure di custodia cautelare e 49 le persone denunciate.

Si è chiusa nel febbraio del 2007 l’inchiesta Caronte, che ha portato la Procura della repubblica di Nocera Inferiore ad emettere 11 provvedimenti cautelari a carico di altrettante persone. L’attività di smaltimento illegale dei rifiuti ha portato a versare direttamente nelle acque del torrente San Tommaso, un affluente del fiume Sarno, la bellezza di 3mila tonnellate di sostanze speciali e a profitti pari a 1 milione di euro nel solo anno 2005.

Ancora una rotta internazionale al centro dei traffici delle ecomafie nostrane portati alla luce da Mesopotamia nel febbraio del 2007. Questa volta le attività illegali si concentravano in Friuli dove venivano stoccati rifiuti pericolosi di carta e plastica provenienti da aziende del Nord Italia e spediti via mare in Siria e in Cina. Piombo, nichel, zinco e mercurio nei fanghi di depurazione e terre di bonifica ad alta concentrazione di PCB che finivano in discariche non autorizzate e sparsi sui terreni agricoli del viterbese, grazie alla falsificazione delle analisi fatta da alcuni laboratori compiacenti. Con l’inchiesta Longa Manus condotta congiuntamente dai Noe di Roma, Viterbo, Sassari, Cagliari, Grosseto e Brescia, nel maggio del 2007 sono state arrestate 10 persone per attività organizzata di traffico illecito di rifiuti, tra questi anche sindaco, assessore all’Ambiente e segretario comunale di Montefiascone, con l’accusa di corruzione.

Fanghi di lavorazione industriale sparsi sulle coltivazioni agricole dell’Emilia Romagna per un volume di affari illeciti di circa 8 milioni di euro e beni sequestrati per oltre 6 milioni, 5 arresti, 47 denunciati e 11 aziende coinvolte. Sono i numeri dell’operazione Pseudo Compost che nel luglio del 2007 ha scoperto un’organizzazione criminale che declassava i rifiuti pericolosi per smaltirlo in discariche non autorizzate e sotto forma di compost in agricoltura.

Anche nell’Alessandrino, come accertato a febbraio del 2008 dall’inchiesta Dolcefango, venivano sparsi sui campi coltivati enormi quantità di rifiuti pericolosi sotto forma di ammendanti. Tra i 4 arrestati, anche un funzionario corrotto della Provincia di Alessandria. Nel comune di Caivano, in provincia di Napoli, i protagonisti dell’inchiesta Nerone, 6 arresti nel gennaio del 2008, bruciavano rifiuti pericolosi contenenti rame. L’attività avveniva direttamente su aree a destinazione agricola lasciando dopo la combustione sostanze altamente tossiche sui terreni.

La Procura di Foggia e i Noe dei carabinieri di Bari nel giugno del 2008 hanno smascherato lo smaltimento illecito di rifiuti pericolosi in un’area a ridosso del fiume Cervaro riconducibili ai lavori di ampliamento della discarica del comune di Deliceto. Black River il nome dell’operazione che ha portato all’arresto di 12 persone e al sequestro di un laboratorio di analisi di Manfredonia.

In questi traffici illeciti s’intrecciano, da sempre, gli interessi di imprenditori senza scrupoli e di rappresentati della criminalità organizzata. Una conferma clamorosa è arrivata, il 18 settembre 2008, dai risultati dell’inchiesta denominata Star Wars, condotta dalla Procura di Monza su un’associazione criminale legata alla ‘ndrangheta calabrese che acquistava e affittava terreni in alcuni comuni dell’hinterland milanese per utilizzarli come discariche illegali, anche di rifiuti pericolosi. Otto arresti, 20 denunce e 65mila metri quadrati di terreni posti sotto sequestro tra i comuni di Desio, Seregno e Briosco dove erano stati seppelliti oltre 178 mila metri cubi di rifiuti. Tra gli uomini finiti in manette, anche Fortunato Stillitano, pregiudicato e latitante della cosca Iamonte di Melito San Salvo nel Reggino.

Quello svelato dalle indagini coordinate da decine di Procure è, insomma, un vero e proprio “giro d’Italia” dei rifiuti, che attraversano in tutte le direzioni il nostro paese per essere affidati a sistemi illegali di smaltimento, sempre più raffinati e pericolosi. Oggi questi trafficanti hanno un nome e cognome, rischiano l’arresto e il sequestro di mezzi e società. Da domani, se il delitto di organizzazione di traffico illecito di rifiuti non verrà introdotto nel Ddl Alfano, torneranno ad agire nell’ombra. Le responsabilità di questo vero e proprio furto di verità sarebbero gravissime e come Legambiente non mancheremmo di denunciarle al Paese.

3. Il fuoco assassino

Il 2007 è stato un anno da dimenticare sul fronte degli incendi boschivi, con 10mila roghi che hanno mandato in fumo oltre 225mila ettari di vegetazione e causato la morte di 18 persone. I roghi non divampano mai per caso, se un bosco va in fiamme è quasi sempre perché qualcuno lo ha acceso. E la lista dei moventi è purtroppo ricca: si va dagli interessi legati alla pastorizia, alle vendette tra contadini o tra famiglie criminali, alle mire immobiliari degli speculatori edilizi, ai motivi occupazionali degli operai forestali stagionali, agli interessi della mafia. Anche questo crimine, come quello del racket dei rifiuti, rischia di essere derubricato con il ddl Alfano sulle intercettazioni, non rientrando di fatto nelle fattispecie di reato previste. E, considerando la rapidità con cui un incendiario può accendere le micce e fuggire facendo perdere le proprie tracce, l’impossibilità di  vvalersi delle intercettazioni renderebbe ancora più arduo perseguire con successo questo genere di reati.

La lotta a questo crimine infatti è oggi ancora debole, per questo non si deve depotenziare il lavoro delle forze dell’ordine. Nel 2000, con la legge 353 che ha anche introdotto il reato di incendio boschivo nel codice penale, si è demandato ai comuni l’obbligo di istituire il catasto delle aree percorse dal fuoco. Un valido strumento legislativo che, sospendendo per 15 anni ogni cambio di destinazione d’uso e per 10 la possibilità di edificare, cacciare o utilizzare a pascolo i terreni incendiati, ha il chiaro fine di annullare gli appetiti di quanti senza alcuno scrupolo usano i roghi come mezzo per perseguire interessi economici di varia natura. Purtroppo il catasto è una realtà che riguarda oggi solo il 24% dei comuni italiani. I risultati migliori spettano alla Liguria, dove la mappatura è ormai realizzata per il 61% dei municipi, seguita dalla Toscana con il 43% e l’Umbria con il 40%. Ancora lontane le regioni del sud, proprio quelle che ogni estate pagano un tributo eccezionale al fuoco degli incendiari: un misero 12% in Puglia e nessun comune in regola in Sicilia.

3.1 La Mafia e il racket degli incendi

La piaga degli incendi che ogni estate devasta la Sicilia ha una firma ben chiara, quella, paradossalmente, di chi quei roghi li dovrebbe spegnere: già nel 2001 il Sisde denunciava la responsabilità degli operai forestali assunti con contratti stagionali. Parliamo di una categoria di lavoratori che sull’Isola conta la cifra esorbitante di 30.750 addetti, a fronte di una superficie boschiva tra le meno estese. Per dare un peso a questi numeri, basti pensare che si tratta di quasi la metà di tutti i forestali italiani, che sono 68mila. Ogni forestale in Sicilia “controlla” 12 ettari di bosco, mentre in Toscana un suo collega deve occuparsi di 1.409 ettari. Ecco allora che, per ottenere il rinnovo del contratto, questo esercito di precari spesso si assicura il lavoro procurandoselo, ossia dando fuoco ai boschi, così come hanno accertato gli arresti eseguiti a conclusione di numerose indagini. Come quella che ha portato al fermo di un uomo colpevole di aver appiccato il fuoco sulle colline sopra Messina, incastrato dal reparto investigazioni scientifiche dei Carabinieri: pastore e forestale di giorno, incendiario di notte. Lo scorso anno, dopo che a luglio è andato a fuoco il Gargano e a Peschici i roghi hanno causato 3 vittime e migliaia di sfollati, il 22 agosto in Sicilia l’incendio appiccato da due pastori del luogo a Patti, nel messinese, ha ucciso 5 persone rimaste intrappolate dentro l’agriturismo Rifugio del Falco in cui stavano trascorrendo qualche giorno di vacanza.

Per inquadrare la portata del fenomeno, bastano pochi numeri: il Corpo Forestale dello Stato nel 2007 ha censito 10.055 incendi, denunciando 777 persone e arrestandone 15.

Secondo le indagini, oltre l’80% dei roghi ha avuto indubbia origine dolosa. Sebbene i roghi dolosi, che rispetto al 2006 sono raddoppiati, siano diffusi in tutta la Penisola, la gran parte, e quella con gli effetti più estesi e devastanti, avviene nelle 4 regioni a tradizionale presenza mafiosa, Sicilia, Calabria, Puglia e Campania, che insieme detengono oltre il 50% dei casi. Il primato assoluto spetta alla Calabria con 2.174 incendi.

Al sud il racket del fuoco, che sia legato all’agricoltura, alla pastorizia o alla gestione degli operai forestali, ha sempre comunque a che vedere con il controllo del territorio, che è il vero punto di forza della criminalità organizzata. Perché gli affari che si celano dietro agli incendi fanno gola anche alla mafia, che in Sicilia è particolarmente attiva nel settore degli appalti per i lavori di riforestazione. “Tagliavia lavori RIMBOSCHIMENTO chiesto come siamo compinati risposta fu Detta una parola”: così era scritto nel messaggio in italiano stentato affidato a uno dei tanti pizzini ritrovati nel covo del boss Bernardo Provenzano dopo la sua cattura. Un altro pizzino tra gli appunti del boss Salvatore Lo Piccolo aveva un titolo molto eloquente: “Per il rimboschimento”. Sempre dalla stessa nota, si evince che un noto collaboratore del clan aveva già preso dettagliate informazioni su una certa società consortile di Agrigento, dedita, appunto, ad attività di rimboschimento.

*****

 

Condividi su:
  • Twitter
  • Facebook

© Altrabenevento

Scroll to top