Complotto contro De Magistris per impedirgli di indagare i “grumi di malaffare”
Stampa questo articoloSalerno un anno dopo: Contro de Magistris fu complotto
Da Antimafia duemila- di Monica Centofante – 19 aprile 2010
Dodici indagati in tutto. Tra cui sette magistrati, un senatore, un sottosegretario al Ministero delle Attività Produttive. Tutti insieme appassionatamente per fermare le indagini dell’allora pm a Catanzaro Luigi de Magistris e salvaguardare i propri interessi.
A poco più di un anno di distanza dal trasferimento disciplinare dei pm Gabriella Nuzzi e Dionigio Verasani e del procuratore capo Apicella (sospeso anche dallo stipendio) a Salerno il tempo sembra essersi fermato. E nell’avviso di conclusione indagini emesso qualche giorno fa dai pm Maria Chiara Minerva, Rocco Alfano e Antonio Cantarella, guidati dal procuratore capo Franco Roberti, quel sistema affaristico-criminale che lega a foppio filo politica, imprenditoria e magistratura riemerge così come i primi giudici lo avevano evidenziato. Guadagnandosi gli attacchi di buona parte dei vertici della classe politica e le sanzioni del Csm con la benedizione dell’Associazione Nazionale Magistrati.
La vicenda in questione, si ricorderà, è quella che parte dalle ormai note inchieste Why Not e Poseidone, strappate dalle mani di Luigi de Magistris mentre l’allora magistrato additava le responsabilità di politici e imprenditori impegnati nella distrazione di fondi pubblici, destinati allo sviluppo di quella terra martoriata che è la Calabria, a tutto vantaggio di interessi privati. E alle successive e complesse indagini dei magistrati Nuzzi e Verasani, che dalla procura di Salerno, competente su quella di Catanzaro, avevano scoperto un vero e proprio complotto ordito ai danni dello stesso de Magistris con il preciso intento di fermare il suo lavoro.
Principali artefici della cospirazione: alcuni indagati e i vertici della stessa procura di Catanzaro, sulla quale i magistrati di Salerno stavano svolgendo accertamenti quando, con un pretesto, furono cacciati dal Consiglio Superiore della Magistratura. Costretti a lasciare l’inchiesta nelle mani di altri giudici, che oggi però, a un anno di distanza, sono giunti alle loro stesse conclusioni.
E così, nelle maglie della giustizia, sono finiti nuovamente l’ex procuratore capo a Catanzaro Mariano Lombardi, l’aggiunto Salvatore Murone, l’ex procuratore generale Enzo Iannelli, il procuratore facente funzioni Dolcino Favi, i sostituti pg Alfredo Garbati e Domenico De Lorenzo, il pm Salvatore Curcio. E ancora la moglie di Lombardi, Maria Grazia Muzzi, il figlio Pierpaolo Greco e tre indagati di de Magistris: Antonio Saladino, Giancarlo Pittelli, Giuseppe Galati.
Tutti accusati, a vario titolo, di corruzione in atti giudiziari, falso ideologico e omissione d’atti d’ufficio. Tutti parte del complesso ingranaggio messo a punto per fermare le inchieste del magistrato: ognuno con un proprio ruolo, tutti uniti dalla logica del do ut des.
Mariano Lombardi e Salvatore Murone, recita infatti la prima parte dell’avviso di conclusione indagini, “creavano i presupposti quantomeno per una prevedibile e inevitabile stagnazione delle attività istruttorie in corso”, “così da favorire … le persone implicate nelle indagini preliminari”. Tra queste, in particolare, Antonio Saladino, vero deus ex machina del sistema corruttivo emerso in Why Not, nonché “l’avvocato senatore Giancarlo Pittelli e l’on. Sottosegretario Giuseppe Galati”. Che in cambio, si legge, si erano adoperati per far ricevere “denaro o altre utilità” sia al dott. Lombardi che all’avvocato civilista Pierpaolo Greco, figlio della seconda moglie del procuratore.
Il Greco avrebbe difatti trovato lavoro presso il rinomato studio penale Pittelli; sarebbe diventato socio, insieme al Pittelli stesso, della Roma 9 srl, con notevoli agevolazioni economiche; avrebbe ricevuto dal sottosegretario alle Attività Produttive Galati diverse nomine di Commissario Liquidatore di società e consorzi.
Mentre Murone avrebbe sistemato “parenti e conoscenti” con le assunzioni ottenute grazie al “rapporto sinallagmatico” e al “patto corruttivo” stretto con Antonio Saladino.
E’ in questo quadro che rientrano la revoca dell’indagine Poseidone, avvenuta in seguito all’iscrizione del Pittelli nel registro degli indagati, e la rocambolesca avocazione dell’indagine Why Not. Per la quale erano entrati in gioco il Procuratore generale facente funzioni Dolcino Favi e l’allora ministro della Giustizia Clemente Mastella.
All’epoca riprendono i giudici di Salerno, il dott. Favi – “in concorso psicologico con agli altri indagati”, aveva parlato di “conflitto di interessi” tra il Mastella, appena iscritto nel registro degli indagati di Why Not e il magistrato titolare di quell’inchiesta. Inquisito disciplinarmente dallo stesso Ministro della Giustizia, che nel suo ufficio aveva più volte inviato gli ispettori ministeriali. Nell’ambito però, e questo dal Procuratore generale non veniva specificato, di altre vicende processuali estranee a Why Not.
“Una falsa rappresentazione di una situazione di conflitto di interessi”, sottolinea quindi il documento, che avrebbe avuto come effetto quello di frenare l’attività investigativa prima di procedere ad una “parcellizzazione dei vari filoni d’inchiesta” assegnati a magistrati già impegnati su altri fronti e “del tutto estranei alle logiche d’indagine fino a quel momento seguite”.
A questo sarebbe seguito l’allontamento dalle inchieste del Capitano dei Carabinieri Pasquale Zacheo e dal consulente della Procura Gioacchino Genchi. Mentre “si andava a concretizzare, di fatto, una illecita attività di interferenza sull’iter del procedimento penale in questione e comunque si determinava almeno un suo rallentamento tale da favorire, di per sé ed almeno per un iniziale periodo di tempo, le persone implicate nelle indagini preliminari”.
Già nel 2008 i pm Gabriella Nuzzi e Dionigio Verasani avevano scoperto il “piano”. Ma erano stati cacciati dal Consiglio Superiore della Magistratura nell’ambito della fantomatica “guerra tra procure”. Un assurdo giuridico con il quale si era giustificata l’ennesima azione illecita commessa dalla procura di Catanzaro che aveva operato un inedito controsequestro degli atti appena sequestrati dalla stessa procura di Salerno che per competenza stava indagando su di lei.
E a nulla era servito il provvedimento emesso dal Tribunale del Riesame, che aveva giudicato corretto l’operato di quei magistrati, così come più tardi avrebbe fatto il Tribunale di Perugia archiviando le denunce sporte contro di loro dai pm catanzaresi.
Quell’azione, è evidente, era necessaria per chiudere per sempre una vicenda troppo scomoda.
Ma come tramanda la saggezza popolare: il tempo è galantuomo e i nodi, prima o poi, vengono sempre al pettine. A Salerno ci sono arrivati. E a quei magistrati che hanno perso il lavoro e subito l’onta delle sanzioni disciplinari e del linciaggio mediatico chi chiederà scusa?