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Ingroia: “La riforma della giustizia è l’anticamera del regime”

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Da Micro Mega del 12 aprile 2010

Intervista a Antonio Ingroia, procuratore aggiunto della Procura distrettuale antimafia di Palermo.

di Antonino Gerbino e Enrico Paduano.

Un magistrato da sempre in prima linea nella lotta alla mafia, “senza calcoli”, rischiando in prima persona senza mai cedere al compromesso, come gli ha insegnato il suo “maestro”, Paolo Borsellino. Un uomo che ama parlar chiaro e che non conosce il politichese: nettamente contrario alla legge sulle intercettazioni e alla riforma della giustizia proposta dal governo Berlusconi, definita “l’anticamera del regime”. Avrebbe voluto rappresentare queste idee al Csm, ma (si sa) anche gli altri magistrati non amano le “prime donne”.

Dopo la vittoria del Pdl alle elezioni regionali, Silvio Berlusconi ha annunciato che rilancerà la riforma della giustizia: il primo passo sarà quindi la legge sulle intercettazioni. Lei si è già espresso su questo progetto di riforma negli ultimi mesi, nel libro C’era una volta l’intercettazione. Mercoledì è arrivato però l’ennesimo rinvio e molti credono, anche per le resistenze dell’ala finiana nella maggioranza, che il percorso non sarà così semplice come vorrebbe il Premier. Crede che questo governo abbia la forza di far approvare questa legge? Quali saranno le conseguenze se dovesse avere successo?

Previsioni sull’approvazione o meno implicano valutazioni politiche che non mi sento di fare. Del resto è difficile fare qualsiasi previsione. Quasi quotidianamente si rincorrono notizie contrastanti e contraddittorie. In teoria il governo ha la maggioranza per poterla approvare, in teoria c’è l’unanimità, o almeno posizioni abbastanza convergenti all’interno della stessa maggioranza e infatti il progetto è stato già approvato da uno dei due rami del Parlamento. Perciò è ben possibile che venga approvato anche in tempi brevi.

Bisogna perciò far sapere il più possibile agli italiani, ai cittadini, quali saranno le conseguenze. Saranno direi quasi “catastrofiche”.

In questi anni le intercettazioni sono state lo strumento investigativo più importante, più penetrante, che consente di acquisire notizie sui reati più nascosti, più occulti, sulla criminalità mafiosa, la criminalità organizzata, la “criminalità del potere”. È quella che sa meglio nascondere le tracce dei proprio reati.

Le intercettazioni, telefoniche e ambientali, permettono di rivelare proprio questi reati più nascosti. Questo disegno di legge, che, secondo le intenzioni “ufficiali del governo”, serve a tutelare meglio la privacy dei cittadini minacciata da una magistratura invadente, in realtà finisce per annullare, distruggere, rendere inefficace, vanificare, questo strumento fondamentale. Tra qualche settimana, mese o anno, quando verrà approvato questo disegno di legge, gli italiani per bene saranno più inermi e disarmati di fronte alla criminalità, mentre i delinquenti più impuniti.

Eppure alcuni esponenti politici del centrodestra, come anche del centrosinistra, accusano i magistrati di aver abbandonato i “classici” metodi di indagine e di abusare delle intercettazioni. Quali sono questi “classici” metodi di indagine e cosa riuscivano a ottenere?

Vorrei saperlo anch’io. Per decenni si sono viste indagini e processi senza colpevoli, indagini e processi costellati da assoluzioni per insufficienza di prove, soprattutto nelle indagini più complesse come quelle sulla criminalità organizzata. Questa sequenza di assoluzioni si è interrotta quando la magistratura ha cominciato ad avere strumenti di investigazioni più penetranti, che sono costituiti da due strumenti principali: i cosiddetti “pentiti”, i collaboratori di giustizia, e le intercettazioni.

I pentiti, meno di dieci anni fa, sono stati zittiti, banditi con una legge che li criminalizza, che ha determinato una dissuasione dalla dissociazione (i pentiti ormai si contano sulle punte delle dita di una mano), e anche quei pochi che si pentono si guardano bene dall’affrontare temi particolarmente rischiosi, come i rapporti mafia-politica, mafia-economia. Lo strumento rimasto quindi, sono le intercettazioni. Tolte le intercettazioni non ci saranno più strumenti. Il rischio è di tornare a una fase che nel libro definisco “Medioevo prossimo venturo”, un ritorno al passato di quarant’anni.

Cosa pensa invece di quelle intercettazioni, talvolta anche penalmente irrilevanti, che finiscono sui giornali spesso prima del processo? Chi può trarre beneficio dalla pubblicazione delle stesse sui quotidiani di informazione? Chi fa le indagini o chi le subisce?

Bisogna fare una distinzione. La pubblicazione intempestiva delle intercettazioni, specie se si tratta di indagini ancora segrete, il danno principale lo fa alle indagini, le quali spesso, per essere fruttuose, devono rimanere segrete. Quando gli indagati vengono a conoscenza delle indagini, i telefoni ammutoliscono.

Però spesso si fanno polemiche assolutamente sul nulla. A volte quelle che escono, ad esempio quelle dell’indagine a carico di Bertolaso, sono intercettazioni già a disposizione delle parti in quanto contenute nei provvedimenti cautelari, non sono coperte dal segreto. Dal momento in cui sono a disposizione della parti, anche se, volendo spaccare il capello in quattro, è vietata la pubblicazione fino all’udienza preliminare, queste non sono più segrete. Non si può mettere sullo stesso piano la violazione del segreto istruttorio con la pubblicazione anticipata di atti che non sono più segreti. In Italia invece tutto fa brodo pur di fare polemiche per attaccare la magistratura.

Berlusconi e Alfano hanno altresì annunciato che in tempi brevi verrà approvata una riforma della giustizia che interverrà anche sulla Costituzione. I punti principali sui quali si interverrà: separazione delle carriere, semplificazione delle procedure per velocizzare i processi, rafforzamento dei diritti della difesa, discrezionalità dell’azione penale al posto dell’obbligatorietà e riforma del Csm. Quale la sua opinione sul progetto governativo? Potrà causare una rivoluzione positiva nel mondo della giustizia?

E’ un progetto accarezzato da anni da ampi settori della classe politica, che vuole regolare i conti con la magistratura, un regolamento di conti mediante una revisione istituzionale e costituzionale, che tende ad annullare ogni potere autonomo e indipendente di controllo sull’azione dell’esecutivo. L’Italia dovrebbe essere uno Stato democratico di diritto fondato sulla separazione dei poteri, mentre negli ultimi anni si registra una accentuazione dei poteri dell’esecutivo, dove si tende a limitare gli spazi di controllo autonomo del potere giudiziario e anche del potere legislativo, perché spesso oggi il Parlamento si limita ad approvare leggi già preconfezionate dal governo. Dall’altro lato si attacca l’autonomia e l’indipendenza della magistratura, si attacca il Csm, che ne costituisce il caposaldo, si attacca la Corte Costituzionale, un altro elemento di controllo sull’esercizio del potere esecutivo e legislativo, si attacca la libertà d’informazione, il pluralismo degli organi di informazione, per creare una sorta di monopolio concentrato in una sola mano che, di fatto, spesso ha a che fare con lo stesso potere esecutivo. Un quadro di concentrazione di poteri particolarmente allarmante.

In questo contesto va inserito il dibattito sulla separazione delle carriere. Se fossimo in una paese come gli Stati Uniti dove il bilanciamento dei poteri funziona, forse la separazione delle carriere potrebbe anche essere uno strumento che ha una sua funzione.

In un paese come il nostro, dove invece tutto è squilibrato a favore del potere esecutivo, la separazione delle carriere, assieme all’inserimento della discrezionalità dell’azione penale affidato alla magistratura inquirente controllata dal potere esecutivo, costituisce l’anticamera del controllo del potere esecutivo su quello giudiziario. Significa di fatto annullare qualsiasi istanza di controllo giudiziario dell’esercizio del potere politico, l’anticamera del regime.

La gente probabilmente non ha le idee chiare su ciò che significa separazione delle carriere. Siamo proprio certi che un giudice separato dai pubblici ministeri è più affidabile soltanto per questo. Non è vero invece che la professionalità di un magistrato si completa nell’excursus professionale.

Secondo molti però un magistrato si potrebbe trovare ad accusare qualcuno e poi doverlo giudicare dieci anni dopo.

Nell’ordinamento sono già previsti meccanismi di incompatibilità in questi casi. Ormai è impossibile anche fare ciò che avveniva fino a qualche anno fa: un pm poteva diventare giudice scendendo di un piano. Oggi deve cambiare sede, addirittura deve cambiare regione.

Non credo che così si risolvano problemi. Perché un pm non può fare il giudice di primo grado e il giudice di primo grado può fare il giudice d’appello. Dovrebbe innescarsi un meccanismo di separazione all’infinito.

Tutto ciò attiene ad altro. Attiene a dei meccanismi di astensione, di incompatibilità, che sono già previsti.

Per ultimo aggiungo degli esempi. Giovanni Falcone e Paolo Borsellino sono stati pubblici ministeri e giudici. E’ evidente che nella loro formazione professionale l’essere stati per un certo periodo pubblici ministeri e poi giudici gli abbia fatto bene.

Spesso in questi anni i magistrati sono inoltre accusati di un eccessivo “protagonismo”, di fare politica sottraendo tempo al lavoro investigativo. Tempo fa il magistrato Davigo si difese così: “Non ci attaccano per ciò che diciamo ma per ciò che facciamo”. Lei come risponde a queste accuse?

Le stesse accuse si facevano a Falcone e Borsellino. Non credo che siano i giudici ad inseguire i riflettori. Bisognerebbe chiedersi perché i riflettori inseguono questi giudici, perché in Italia i magistrati divengono modelli di riferimento più che in altri paesi. Questo ha a che fare con un’esigenza di giustizia insoddisfatta molto diffusa nel paese. Si polarizza su alcune figure di magistrati questa sete di giustizia non sufficientemente soddisfatta.

Se si vuole evitare il protagonismo dei magistrati si renda la giustizia più efficiente e si soddisfino le esigenze dei cittadini. Se avremo una giustizia ordinaria nella quale non ci sono politici e potenti che cercano l’impunità non avremo magistrati eroi, avremmo una giustizia però che funziona.

Parliamo della sua attività di procuratore. Com’ è fare il magistrato a casa propria, nella regione in cui si è nati, accanto alla propria famiglia e agli amici di gioventù?

Dipende dagli ambiti in cui si esercita. Di certo se l’ambito è molto ristretto, nei piccoli centri, può creare certamente maggiore difficoltà. Quando lo si fa in grandi città, come Palermo o altrove, l’importante è essere molto attenti, mantenere una totale autonomia, indipendenza e imparzialità, inevitabilmente precludersi un po’ di vita pubblica, dedicarsi più ai propri affetti privati e familiari.

Nicola Gratteri in un’intervista da Fazio qualche giorno fa disse non solo di aver avuto qualche compagno di scuola mafioso, ma di averlo fatto arrestare. Il compagno di banco. Le è mai capitato qualcosa del genere?

Non ho avuto il disagio di far arrestare direttamente. Ho avuto però situazioni in cui colleghi e collaboratori, persino amici, sono stati indagati e anche arrestati, dai quali quindi mi sono sentito in un certo qual modo tradito. Purtroppo viviamo in una terra in cui la contiguità con la mafia è forte, si infila dappertutto, mostra spesso un volto pulito. L’importante è mantenere la schiena diritta e non cedere ad alcun compromesso.

Il processo Mori-De Donno è alle battute finali. Se lei riesce a svelare la trattativa, e dimostra l’esistenza di un patto tra Stato e mafia, rendendolo pubblico, il patto salta ed i primi a rischiare sono proprio i magistrati e le forze dell’ordine. Potrebbe riniziare la guerra tra la mafia e quella parte dello Stato che non porge l’altre guancia.

C’è questa possibilità. E’ chiaro che nel nostro lavoro non bisogna mai fare calcoli e ragionamenti di opportunità, noi dobbiamo semplicemente applicare la legge e trovare la verità, e applicare la legge penale in modo giusto ed uguale nei confronti di tutti i cittadini senza considerare i contraccolpi che ne possono derivare. E’ chiaro che se questa trattativa ci fu, qualunque ostacolo o ogni uomo, mezzo o strumento che possa contribuire a svelarla potenzialmente è a rischio.

Martelli, nell’udienza di mercoledì, ha confermato che Borsellino fu informato della trattativa portata avanti dal Ros. A quanto pare il magistrato era nettamente contrario. Potrebbe essere stata questa la causa della strage di Via d’Amelio?

Secondo una certa tesi investigativa, oggetto di approfondimento e verifica, Paolo Borsellino potrebbe anche essere stato ucciso perché percepito come ostacolo alla trattativa. La cosa importante è andare comunque avanti ispirandosi a questi nobili modelli, come Borsellino e Falcone, che avevano fatto della loro intransigenza etica e morale una bussola personale.

Finalmente si sta cercando di far luce su quegli anni bui, anche grazie alla collaborazione di Massimo Ciancimino, figlio di Vito, ex sindaco-mafioso di Palermo. Sono molti però a sollevare dei dubbi sulle reali intenzioni di Ciancimino jr. Alcuni sostengono che abbia iniziato a collaborare per proteggere il suo patrimonio, anche se negli ultimi anni gli sono già stati sequestrati più di 150 milioni di euro. Ne ha ancora molti?

Tutte le indagini bancarie e finanziarie possibili su Ciancimino si sono fatte. È ben possibile che in qualche angolo del mondo, qualche paradiso fiscale, ci sia ancora un gruzzolo di Ciancimino padre che questo figlio vuole conservare. Ma collaborare non è certo il sistema migliore per proteggerlo.

Ha un processo, in quel processo poteva continuare a fare l’imputato sino in fondo, sarebbe stato condannato o assolto con sentenza definitiva, ma nessuno, a processo finito, avrebbe continuato a fare altre indagini. Se il suo scopo fosse stato quello di proteggere il suo patrimonio avrebbe continuato a fare l’imputato e non il collaboratore. Così si è esposto a tutte queste polemiche e queste accuse.

E’ possibile che abbia iniziato a parlare perché sente di aver perso quegli appoggi che in questi anni lo avevano protetto?

Credo che sia un uomo che, fintanto che era libero, godeva di una certa fama anche negli ambienti dell’economia e della finanza globale, dove il nome Ciancimino è un nome che serve anziché un nome che ti allontana. Nel momento in cui è stato arrestato e processato è stato bruciato. Da un lato aveva difficoltà ad entrare di nuovo in quel circuito, dall’altro si era creato questa cattiva fama. Per cui ha cercato per un’altra via di recuperare terreno e costruirsi un nuovo personaggio collaborando con la giustizia.

Comunque noi magistrati non facciamo mai atti fede. Nessuno è credibile sino in fondo né incredibile. Noi operiamo in modo molto laico, un passo alla volta, verificando puntualmente dichiarazione per dichiarazione i riscontri. Se supportata da questi riscontri sarà attendibile, altrimenti sarà inattendibile. Procediamo con grande rigore e attenzione.

Le prime dichiarazioni di Ciancimino alla Procura di Palermo risalgono all’aprile 2008. Sono già due anni di interrogatori, di accertamenti, verifiche e riscontri. Verifichiamo sempre attentamente perché ne va anche dell’indagine e del buon nome della Procura di Palermo. Siamo molto prudenti e attenti.

Da tempo ripete che bisognerebbe concentrare le indagini sul rapporto tra mafia e politica, il vero centro del sistema di potere siciliano. Ora forse lo si sta facendo grazie alle dichiarazioni rese da Spatuzza e dallo stesso Ciancimino. Ciò che vorrei sapere è perché non ci si è mossi negli ultimi dieci anni?

Le indagini sulla mafia si devono fare a tutti i livelli, su tutti i fronti e rispetto a ogni profilo della mafia. Non va mai trascurata la mafia militare e non va mai trascurata la mafia finanziaria e la mafia politica. Ci sono stati periodi della storia, della storia di questo Palazzo, dove si è preferito fare indagini prevalentemente sulla mafia militare e poco su quella finanziaria e politica. Non si devono fare indagini solo sulla mafia politica, ma non si può fare a meno di fare queste indagini se si vuole essere completi, organici e giusti.

Saverio Lodato, nel libro Trent’anni di mafia, per descrivere la situazione attuale di Cosa Nostra, parla di “mafia buona”, la mafia degli affari, non più dei colpi di pistola. Infatti dopo il medico boss, qualche anno fa, Guttadauro, qualche giorno addietro è toccato all’architetto boss Liga. Ci può spiegare qual è la situazione, perché questo cambio di prospettiva della mafia. Perché l’apparato militare è stato definitivamente sconfitto?

Credo che si sia determinato un riequilibrio dei rapporti di forza. Il fatto che le indagini degli ultimi anni si siano concentrate sulla parte militare ha certamente indebolito la mafia militare, che ha effetti sicuramente benefici perché si è allentata un po’ la morsa del controllo del territorio e alcune delle fonti principali di reddito, come racket ed estorsioni. Contemporaneamente la mafia sta cercando di cambiare strategia e quindi si è dedicata di più agli affari, agli investimenti nei flussi finanziari, anche perché investire in terreni e palazzi è più rischioso, più facile da sequestrare e confiscare. Quindi oggi la mafia è mafia della finanza.

In più, dato che la mafia militare si è indebolita, quel pezzo di zona grigia non più grigia, perché è ormai perfettamente organica alla mafia, che un tempo era chiamata “borghesia” mafiosa, ha assunto le redini dell’organizzazione, e assume ormai ruoli di comando, come il medico Guttadauro, o l’architetto Liga.

Vorrei parlare del Presidente Lombardo, senza entrare nei particolari dell’inchiesta che lo vedrebbe coinvolto, a Catania, per concorso esterno in associazione mafiosa. Il Presidente, al momento di formare la Giunta, ha inserito due magistrati proprio per dimostrare il suo impegno nella lotta alla mafia, e forse per proteggersi da coinvolgimenti in inchieste di questo tipo. Cosa pensa di questi magistrati che, accettando gli incarichi offerti dal Presidente della Regione, hanno in qualche modo “legittimato” Lombardo e la sue giunta?

Mi sono già espresso al tempo, quando si formò la giunta Lombardo. Manifestai il mio scetticismo sul fatto che alcuni magistrati assumessero ruoli politico amministrativi, peraltro sulla base di una cooptazione dall’alto da parte dell’autorità politica. Si tratta di assessori che non sono passati attraverso una elezione ma nominati dal Presidente Lombardo. Ritengo che sia inopportuno da un punto di vista deontologico che un magistrato assuma ruoli politico-amministrativi nello stesso territorio dove ha svolto la sua attività di magistrato.

Quindi anche se si candida?

Per quanto riguarda la candidatura si tratta di problemi di sensibilità e di opportunità. Non si può arrivare al punto che i magistrati siano cittadini di serie b a cui viene sottratto il diritto di elettorato passivo. Ritengo però che ci sono appunto casi e casi. Se un pubblico ministero si è caratterizzato per indagini che hanno colpito spesso uomini politici di un certo colore piuttosto che di un altro, forse è inopportuno anche che si candidi.

Lei ha scelto di candidarsi alle primarie del Csm, alle quali però è stato sconfitto. Vorrei che spiegasse ai nostri lettori e ai siciliani che la seguono il perché di questa candidatura. Il Palazzo dei Veleni la ha annoiata e ha deciso di lasciare Palermo?

Assolutamente no. Devo dire che ero stato molto combattuto, incerto e perfino perplesso. Certamente non sono contento di aver perso, ma devo dire che mi piace il lavoro che faccio, svolgo le funzioni di Procuratore aggiunto da un anno circa e mi sarebbe dispiaciuto lasciare questo incarico.

Avevo ricevuto delle sollecitazioni da molti amici siciliani e di altre parti d’Italia, per un’esigenza politica, di rappresentanza. Rappresentanza di un pezzo di magistratura. Io, come altri, colgo in modo particolare la crisi patologica della democrazia e dello stato di diritto in questo momento e quindi ritengo di poter dare il mio contributo al Csm, ora sotto attacco, per difendere l’autonomia e l’indipendenza della magistratura sino in fondo, a tutti i costi.

Il mio avversario, e tra l’altro amico, il Procuratore di Venezia Vittorio Borraccetti, era portatore di una linea diversa, più politica rispetto alla mia che viene considerata più oltranzista.

Può darsi che ci fosse bisogno, nel prossimo Csm, di linee più diplomatiche anziché di quelle più intransigenti come la mia. Sapevo già, dato che Borraccetti ha una lunga carriera all’interno di Magistratura democratica e ha avuto già incarichi all’Anm, quindi ha fatto un’attività politico sindacale di lungo corso, che sarebbe stato difficile spuntarla. Ciononostante ho ritenuto di candidarmi per dare, spazio, voce e rappresentanza a questa parte di magistratura di cui Borraccetti terrà conto dato il mio buon risultato elettorale, sottolineatura di una posizione di cui si farà interprete. Sempre se non dovesse andare in porto la proroga della riforma del Csm che il governo sembra aver pronta nel cassetto, che renderebbe inutili le primarie .

Cosa pensa dell’atteggiamento che hanno da sempre gli altri magistrati nei confronti delle “prime donne”. C’è una strisciante guerra contro quelli che sono considerati “protagonisti” all’interno della stessa magistratura?

Come si suol dire: nemo profeta in patria. Non voglio fare alcun confronto, ma anche Giovanni Falcone si candidò al Consiglio Superiore della magistratura e fu sconfitto. Perfino un magistrato all’apice della sua fama, notorietà e importanza di carriera, non ha avuto successo elettorale. Evidentemente c’è una parte della magistratura che ritiene di essere meglio rappresentata per certi incarichi da persone che sono meno protagoniste dal punto di vista mediatico con le loro indagini e magari più impegnati su altri fronti.

Nel libro Toghe rotte, Tinti e altri magistrati, che hanno però preferito rimanere anonimi, hanno analizzato il sistema giudiziario dall’interno, mettendo in evidenza il ruolo avuto dalla legislazione in questi anni che ha praticamente distrutto le capacità di azione della magistratura: “la giustizia italiana non funziona perché programmata per non funzionare”. Ne emerge un quadro desolante che spesso rende completamente inutile il lavoro dei magistrati. Oggi anche i sacrifici di quei magistrati che hanno dato la vita per difendere la legalità risultano vani. Si può fermare questa deriva?

Siamo in una fase di grande difficoltà, di opera costante di una campagna di denigrazione e di persuasione, più o meno occulta, dell’opinione pubblica per metterla contro la magistratura. Siamo in presenza anche di un incomprensibile atteggiamento di sfiducia dei cittadini nei confronti della giustizia, che finisce per coinvolgere i principali operatori della giustizia che sono i magistrati.

Spesso quello che prevale è la disinformazione, la rissa mediatica fine a se stessa, il rovesciamento della verità. Perciò è importante anche l’opera nei piccoli spazi, nei piccoli ambiti, sulla rete, di realtà d’informazione che possano in qualche modo incidere su questo moloch del pensiero unico. Bisogna creare sempre più spazi d’informazione libera, nel quale un maggior numero di cittadini possa formarsi un’opinione con la propria testa. Quest’oggi è molto difficile. Occorre molto impegno da parte di chi deve informare e molto impegno da parte di ciascun cittadino per informarsi. Ciascuno di noi ha il dovere di darsi da fare. Abbiamo sempre più bisogno di cittadini attivi per non diventare tutti sudditi teledipendenti.

(12 aprile 2010)

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