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Rimuovere la mafia dal racconto sociale

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(Left-avvenimenti scarpinato_copy_15 settembre 2009)

di Pietro Orsatti

Il pm di Palermo Roberto Scarpinato attacca le fiction che descrivono solo boss stereotipati. «Il metodo mafioso è stato inventato dalle classi dirigenti e non da quelle popolari»

Ci siamo dimenticati «la grande lezione del cinema neorealista, ma anche di quello dei decenni successivi. C’era allora un’analisi della società ben più attenta di quella che ci viene proposta oggi da gran parte dell’attuale cinematografia italiana. C’era un vero progetto culturale. Anche la televisione, con tutti i suoi limiti, questa progettualità, questa mission, l’aveva. Cercava di far riflettere sulla realtà, accompagnando a un progetto educativo». Da qui il j’accuse lanciato dal sostituto procuratore di Palermo Roberto Scarpinato nei confronti dell’industria culturale, e nello specifico delle numerose fiction televisive sulle gesta dei più famosi boss mafiosi. Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto, La classe operaia va in paradiso, Le mani sulla città, «di film di quel genere non se ne scrivono più».

Secondo il magistrato «oggi ci troviamo davanti a un progetto di produzione televisiva basato sull’intrattenimento, sulla divagazione, sulla rassegnazione e la fuga. E per quanto riguarda ad esempio le ultime fiction di questi anni sui boss mafiosi ci troviamo davanti a una sorta di mistificazione culturale, che ignora la realtà emersa invece dagli ultimi 15 anni di processi». Perché, secondo Scarpinato, il racconto propostoci dalla televisione e dal cinema della mafia distorce in qualche modo la percezione del fenomeno mafioso, del metodo mafioso. I mafiosi descritti quasi come eroi negativi, brutti sporchi e cattivi e solo sullo sfondo qualche colletto bianco complice. Solo alcuni e sullo sfondo. È qui la realtà del fenomeno mafioso va a scontrarsi con quella descritta dalla televisione. «Nel nostro Paese esiste un fenomeno, segnalato sia da criminologi che giuristi, davvero preoccupante – spiega il magistrato – la diffusione a macchia d’olio da Bolzano a Palermo del metodo mafioso di fuori dal suo habitat tradizionale, e cioè Cosa nostra, camorra e ’ndrangheta, all’interno del mondo dei colletti bianchi. Da Bolzano a Palermo ci sono centinaia di processi su associazioni a delinquere, comitati d’affari e network di potere che utilizzano il metodo mafioso, come metodo per condurre i propri affari e conquistare spazi di potere. Per questo ho dichiarato più volte che sarebbe più corretto parlare non del concorso dei colletti bianchi nella mafia ma del concorso della mafia nel mondo dei colletti bianchi». Perché la mafia, o meglio il metodo mafioso, non sarebbe espressione delle classi popolari ma di quelle dirigenti. «Molte inchieste mostrano che il metodo mafioso si sostanzia nell’uso organizzato dell’intimidazione. Se si va a leggere l’articolo 416 bis, si accorgerà che il reato non si consuma solo con la violenza, l’uso delle armi è solo un’aggravante. Il legislatore è consapevole che ci sono mille modi altrettanto efficaci e incruenti di creare uno stato di assoggettamento diffuso e di intimidazione collettiva. Ti posso impedire di lavorare, di scrivere, ti posso ridurre sul lastrico, ti posso ridurre al silenzio. Ecco come il metodo mafioso si va diffondendo sempre di più».

E qui, con questa descrizione in cui i mafiosi con coppola e lupara diventano da protagonisti tutt’al più comprimari, dove si concentra la polemica lanciata da Scarpinato. Che va, inevitabilmente, a toccare il nodo dell’intero sistema di descrizione e di racconto della realtà: dall’informazione alla televisione, dalla letteratura al cinema.

«Io non so quali siano le ragioni di questa mancanza di memoria, di rimozione – spiega -. Potrebbe essere ignoranza ma alcuni sceneggiatori di una fiction o di un film hanno tutti gli strumenti culturali per non esserlo. È la realtà che smonta le fiction. Non dimentichiamoci che prima di Riina il capo della mafia a Corleone era il professore Navarra, che a capo di Palermo c’era Michele Greco, che molti dei più importanti capi della mafia erano medici, avvocati, e così via. Questo è un fatto. Qui parliamo di capi organici della mafia, che è cosa diversa da colletti bianchi collusi. Qui c’è un pezzo di nomenclatura del potere che dirige un’organizzazione mafiosa, che è dentro un blocco sociale col quale chiunque in Italia, dall’Unità a oggi, ha dovuto fare i conti. Perché nessuno può andare avanti senza andare a patti con la borghesia mafiosa». E Scarpinato porta un esempio, una storia del tutto dimenticata dal grande racconto sulla mafia a cui si sta assistendo in questi anni. L’omicidio Mattarella. «Una storia che nessuno ha mai raccontato, in sceneggiati o in film. Aspetto che qualcuno mi chiami per sceneggiare insieme questo film – si lascia sfuggire ridendo il magistrato – perché è una storia esemplare. Non è una delle tante storie, è una di quelle storie in cui raccontandola descrivi i perché e i per come del Paese. Piersanti Mattarella era il figlio di un ministro democristiano il quale ha cercato di cambiare il corso della vita pubblica. E lo ha fatto. Non è solo la storia di un uomo ucciso dall’ala militare della mafia. È la storia di un affare di famiglia interno alla classe dirigente. Perché ogni anno nel corso delle commemorazioni dell’omicidio Mattarella si continua a ricordare soltanto chi furono gli esecutori materiali, dimenticandosi che c’è tutt’altra realtà processuale con fatti di rilevanza penale accertati che in qualsiasi altro Paese, che non volesse fare lo struzzo, sarebbero oggetto di riflessione collettiva. Il silenzio su questa storia è significativo, ci spiega tutto il resto, anche i film, le fiction, la rimozione». E quel processo, quella realtà processuale, è nelle carte della sentenza al processo Andreotti.

BOX
Omicidio Mattarella/processo andreotti
Le verità nascoste

Nella sentenza n. 1564 del 2003 della Corte di appello di Palermo nel processo a carico di Andreotti, confermata definitivamente in Cassazione, si legge: «E i fatti che la Corte ha ritenuto provati dicono, comunque, al di là dell’opinione che si voglia coltivare sulla configurabilità nella fattispecie del reato di associazione per delinquere, che il sen. Andreotti ha avuto piena consapevolezza che suoi sodali siciliani intrattenevano amichevoli rapporti con alcuni boss mafiosi; ha, quindi, a sua volta, coltivato amichevoli relazioni con gli stessi boss; ha palesato agli stessi una disponibilità non meramente fittizia, ancorché non necessariamente seguita da concreti, consistenti interventi agevolativi; ha loro chiesto favori; li ha incontrati; ha interagito con essi; ha loro indicato il comportamento da tenere in relazione alla delicatissima questione Mattarella, sia pure senza riuscire, in definitiva, a ottenere che le stesse indicazioni venissero seguite; ha indotto i medesimi a fidarsi di lui e a parlargli anche di fatti gravissimi (come l’assassinio del presidente Mattarella) nella sicura consapevolezza di non correre il rischio di essere denunciati; ha omesso di denunciare le loro responsabilità, in particolare in relazione all’omicidio del presidente Mattarella, malgrado potesse, al riguardo, offrire utilissimi elementi di conoscenza».

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