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L’ombra dei servizi sulle stragi. Genchi: “Ancora indizi utili”

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attentato_via_damelio1__n11di Claudia Fusani, da l’Unità, 26 luglio 2009

«Andate a vedere là, al castello Utveggio, quella è roba vostra» ha detto Totò Riina venerdì parlando per la prima volta dopo 17 anni con i magistrati di Caltanissetta e accreditando l’ipotesi che sulla strage di via D’Amelio ci sia, anche, la mano dei servizi segreti. È il passaggio forse più significativo del colloquio investigativo durato quasi tre ore. Ed è un passaggio che si ritrova pari pari nelle motivazioni di sentenze passate in giudicato. «Le testimonianze del dottor Gioacchino Genchi e della dottoressa Rita Borsellino hanno offerto contributi determinanti su quello che realisticamente potrebbe essere stato l’intervento di soggetti esterni su Cosa Nostra (nella realizzazione delle stragi, ndr)» si legge nella sentenza di condanna per la strage di via d’Amelio. E ancora, qualche pagina dopo: «Il dottor Genchi ha chiarito che l’ipotesi che il commando stragista potesse essere appostato nel castello Utveggio, ipotesi utile per ulteriori sviluppi, era stata lasciata cadere da chi conduceva le indagini».

Insomma, può essere un ossimoro, ma Riina e le indagini dicono la stessa cosa e puntano sui servizi segreti. «Di certo – spiega Genchi impegnato oggi in comizi e dibattiti a tenere alta l’attenzione sui nuovi sviluppi sulle stragi del 1992 e del 1993 – il riscontro alle mie indagini non arriva oggi da Riina ma da tracce telefoniche inequivocabili acquisite alle inchieste». E che prescindono dal fatto che magari quel processo sia da rifare dopo che il boss Gaspare Spatuzza ha smentito Scarantino, uno dei perni della vecchia inchiesta.
Genchi, esperto di telefonia, chiamato in causa di recente per eccessi nell’acquisizione di tabulati seppur come consulente delle procure, era all’epoca uomo di punta nel pool investigativo creato per la strage di Capaci e poi per via d’Amelio. (rapporto concluso nel maggio 1993 per divergenze). Scoprì, ad esempio, che, si legge in sentenza, «nel castello Utveggio (costruzione che domina Palermo e via d’Amelio, ndr) aveva sede il Cerisdi, ente regionale dietro il quale trovava copertura un organo del Sisde». E che questo luogo divenne crocevia di utenze clonate, telefonate intercettate e, soprattutto, «il possibile punto di osservazione per cogliere il momento in cui dare impulso all’esplosivo» caricato sotto la 126 parcheggiata davanti all’abitazione della madre di Paolo Borsellino e che saltò in aria alle 16,58,02 del 19 luglio 1992.
Le indagini hanno individuato Pietro Scotto (condannato e poi assolto) come «autore di lavori non autorizzati sulla linea telefonica del palazzo di via d’Amelio (l’intercettazione con cui Cosa Nostra seppe che il magistrato sarebbe andato lì, ndr)». Scotto è stato riconosciuto da due testimoni; era dipendente della società telefonica Sielte che lavorava con gli 007; soprattutto è fratello di Gaspare Scotto, boss del mandamento dove è avvenuta la strage. «L’analisi delle telefonate di Gaetano Scotto – si legge in sentenza – evidenzia contatti con le utenze di castello Utveggio fino al febbraio 1992».
Genchi, trova la prova che «un’utenza telefonica clonata (di una signora napoletana ignara di tutto, ndr) era in possesso dei boss fin dall’autunno 1991» . E che quell’utenza, «in prossimità del 19 luglio (giorno della strage, ndr) chiama una serie di villini che si trovano lungo il percorso che l’auto di Borsellino aveva percorso quella domenica». Si tratta di contatti telefonici con probabili punti di osservazione lungo il tragitto. Lo stesso apparecchio clonato chiama altre «utenze del Sisde che si incrociavano con telefoni che la domenica avevano chiamato i villini- punti di osservazione».

Era di uno 007 anche il numero di telefono trovato sulla montagnola di Capaci da dove fu fatta saltare l’auto di Falcone. Infine Bruno Contrada, lo 007 poi condannato per mafia. Il pomeriggio del 19 luglio era in barca con un altro funzionario, lo stesso il cui numero è stato trovato a Capaci. Ottanta secondi dopo l’esplosione, quando nessuno ancora sapeva, dal cellulare di Contrada partì una telefonata. Era diretta, ancora una volta, al Sisde. Ne aveva ricevuta anche un’altra, due minuti prima dell’attentato. Ma su questa c’è solo una testimonianza. All’epoca i tabulati non trattenevano le chiamate dal fisso al mobile. «Nonostante il tempo passato restano ancora molte tracce» dice Genchi, «vanno sapute seguire».

Riina ai pm ha puntato il dito «sul castello Utveggio». Qui negli anni novanta c’era un sede coperta del Sisde. E da qui partirono telefonate ai boss nei mesi prima e fino a pochi secondi dopo la strage.

(27 luglio 2009)

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