Il rischio sismico si combatte non solo con una buona edilizia, ma con una buona urbanistica.
Stampa questo articoloDa il manifesto, 12 aprile 2009
L’insegnamento dell’Abruzzo e la memoria fragile dell’Italia.
Il rischio sismico si combatte non solo con una buona edilizia, ma con una buona urbanistica.
di Sergio Caldaretti
Paolo Berdini sul manifesto del 7 aprile sottolinea la mancanza di ogni sensibilità politica del governo Berlusconi verso il tema della “messa in sicurezza del territorio e del patrimonio edilizio”; e, per questo, fa riferimento al piano casa in via di definizione, che tende solo ad “aggiungere”. A mio avviso, questa insensibilità non è carattere esclusivo dell’attualità, ma permane nel nostro paese da lungo tempo; e non è da imputare solo alla sfera politico-amministrativa ma è un carattere consolidato della nostra cultura. È molto diffusa la tendenza ad attribuire alla natura maligna una pervicace ostinazione nell’infierire sull’indifeso popolo italico, sottoponendolo ad ogni sorta di vessazione con terremoti, frane, alluvioni, incendi, e così via. Il problema è che un terremoto o una frana in un deserto non fanno notizia perché producono danni molto limitati, mentre una parte di collina densamente edificata che viene giù dopo qualche giorno di pioggia riempie di costernazione i mezzi di informazione quanto i cuori degli individui per l’enormità degli effetti sulle persone e cose che su quella collina si erano insediate. Non è dunque, di per sé, il fenomeno naturale a provocare danni, ma il suo impatto sui contesti insediativi che si trovano sul suo percorso; danni che sono tanto più elevati quanto minore è la capacità di resistenza dell’insediamento all’impatto.
Questa banale constatazione si insinua sempre nell’imponente dialettica mediatica che si innesca a valle di un disastro; accanto alle accorate proteste sui ritardi nei soccorsi e sull’inefficienza del sistema di gestione dell’emergenza, qualcuno si spinge infatti ad adombrare una qualche disattenzione verso i complessi rapporti tra caratteri del sistema naturale e azione dell’uomo, attribuendo a quest’ultima un ruolo non secondario nel determinare i disastrosi effetti che le televisioni mostrano. Da qui, è breve il passaggio a invocare un drastico cambiamento nelle politiche per il territorio, che dovrebbero incardinarsi, neanche a dirlo, sul principio della prevenzione. A sostegno, quattro conti che dimostrano l’enorme differenza tra quanto si è speso nei decenni passati per le ricostruzioni e quanto si sarebbe speso per mettere in sicurezza il territorio.
In particolare, dopo i terremoti del Friuli e dell’Irpinia constatazioni così banali hanno aperto qualche varco. Proprio in quel periodo ho iniziato ad occuparmi, da urbanista, dei temi legati alla mitigazione del rischio sismico, e ho così attraversato con questo sguardo i molteplici disastri che si sono succeduti nel nostro paese con un ritmo incalzante e drammatico e le reazioni che ne sono scaturite. A valle di quei due eventi si è in effetti sedimentata una certa attenzione su questi temi, sia nel contesto scientifico che nell’azione politica; ne sono testimonianza le attività del Gruppo nazionale per la difesa dai terremoti e dell’Istituto di geofisica e vulcanologia, volte a definire tecniche e procedure di mitigazione, e le sperimentazioni condotte in alcune regioni per trasferire queste indicazioni in termini normativi e gestionali. Le ricerche portate avanti sulle risposte dei sistemi costruttivi ad un terremoto hanno portato a definire nuovi protocolli di sicurezza, recepiti poi da leggi e circolari.
Nel contesto scientifico che si occupava della questione si è innescato un deciso dibattito tra chi interpretava la mitigazione del rischio sismico in termini di “sicurezza” dei manufatti, e chi (in particolare, gli urbanisti) invece attribuiva centralità ad una visione della città e del territorio come sistemi complessi, e dunque riteneva che una strategia di mitigazione dovesse andare oltre l’attenzione al singolo elemento per considerare le infinite interazioni di diversa natura che si esplicano in un contesto insediativo. Una semplice constatazione dava forza a questa seconda tesi: anche se si fosse riusciti, imponendo determinate regole, a far costruire i nuovi manufatti con tecnologie adeguate a resistere al sisma, permaneva comunque l’impossibilità concreta (anche in termini economici) di “mettere in sicurezza” tutti i manufatti esistenti.
A questa fase “dinamica” ha poi fatto seguito un progressivo affievolirsi delle attività; non che tutto si sia fermato, piuttosto l’attenzione è andata sfumando, e con lei il “senso del problema”, la sua coscienza collettiva. Gli eventi più recenti, forse perché non così disastrosi come quelli della fine degli anni ’70, sono passati senza trovare sedimento, sia nella sfera politica che nella memoria individuale e collettiva.
Temo che, oggi, il problema non sia (solo) il governo Berlusconi, ma qualcosa di più immanente e sedimentato: l’incapacità di una collettività di conservare memorie, e di farne discendere prospettive e strategie d’azione. (…) In conclusione, ritengo che sia essenziale una sensibilizzazione a livello individuale e collettivo. Ciò rimanda a due grandi obiettivi di portata ben più ampia: la riappropriazione della coscienza collettiva del territorio e la centralità dell’approccio politico-strategico nell’interazione tra contesti locali e contesto globale. Obiettivi che dovrebbero essere inseriti senza indugio in un programma volto a ridefinire riferimenti costitutivi e strategie della malconcia sinistra nostrana.