Un anno di pandemia nel Sannio, tra speranze e nuove povertà.
Stampa questo articoloQuella tammurriata sui balconi di Benevento risuona ancora
Reportage di Antonio Esposito
L’ondata della pandemia scuote ancora il Sannio, a distanza di un anno. La Domenica delle Palme è una delle giornate più terribili, con sei morti in 24 ore. Dall’inizio sono quasi duecento. I giornali locali titolano a caratteri cubitali: “Il momento più drammatico del 2021”. L’ospedale Rummo, ormai saturo nei posti covid, fa registrare un bilancio pesantissimo: 18 deceduti in una settimana. I contagiati complessivi sanniti superano gli ottomila secondo i dati del ministero. Come in ogni parte del mondo, bisogna correre a vaccinare. Fare presto anche per fronteggiare le probabili varianti. Un imperativo urgente che, però, ha incontrato intoppi e lentezze a Benevento. La presenza per diversi giorni di un solo centro vaccinale ha destato molte critiche, perché la struttura ASL di via Minghetti è apparsa subito insufficiente per tutta la città. Così i cittadini prenotati, in gran parte ultraottantenni, sono stati costretti ad attendere nel freddo o nel sole. Alcuni sono stati rimasti in macchina. Prima di sabato 27 marzo mancavano anche le sedie.
“Sto aspettando da quasi due ore -ci dice la signora Iole, ex insegnante- sono venuta prima per prendere il numero. L’organizzazione è assai carente. Ci volevano strutture più idonee. Perché non utilizzare il Palatedeschi, un posto al coperto e con i servizi igienici? Ci sono tante scuole libere, la caserma Guidoni, il Paladua. Martedì scorso faceva molto freddo, c’era la neve. Uno viene che sta bene e rischia di andarsene con la bronchite”. Per chiedere la vaccinazione a domicilio degli over 80 non deambulanti è nato finanche un comitato, guidato da Francesco Agozzino. “Qui ci vorrebbe l’esercito -ha proposto Biagio Osvaldo Severini- i politici locali sono incapaci di gestire la situazione. Chiedo l’intervento del generale Figliuolo”.
Col passare dei giorni, l’Asl di Benevento ha cominciato a perfezionare la campagna di vaccinazione, prevedendo altri luoghi, come l’ex Caserma Pepicelli di Viale Atlantici e l’Oratorio delle Orsoline di Via Bosco Lucarelli. Il giorno 30 marzo erano stati somministrati 50 mila vaccini, ma il programma prevede di farne 4 mila al giorno. Le speranze di una ripresa, del resto, sono affidate alla vaccinazione di massa, perché la pandemia continua a colpire. Non solo sul piano sanitario, ma anche e soprattutto su quello economico. “Prima eravamo scioccati, oggi siamo provati, perché la crisi economica si è fatta più pesante”. Con queste semplici parole Papa Francesco, ha sintetizzato la drammatica condizione esistenziale di oggi.
La disperazione e la rabbia di chi non ce la fa più si toccano con mano anche a Benevento. Sono scintille allarmanti e preoccupanti, infatti, l’accorato grido dei giovani che hanno interrotto la messa della Domenica delle Palme nella Basilica della Madonna delle Grazie e la protesta di un gruppo di commercianti esasperati che hanno occupato il palazzo comunale, disseminando sacchi neri nella sala consiliare. “Accanto alla libertà di culto -hanno scritto i contestatori su uno striscione- vogliamo anche la libertà di cultura, di cinema, teatro, musica”. “Non vogliamo elemosine -hanno proposto i negozianti,- vogliamo vivere del nostro lavoro. Aiutateci sui fitti e sui prestiti bancari. Invece di spendere i soldi per spettacoli televisivi”.
La lunga chiusura delle attività ha gettato sul lastrico tante categorie sociali, che sono costrette a ricorrere alla Caritas per un pasto caldo. Sono, infatti, più di 500 le famiglie che hanno fatto richiesta per un paniere alimentare in distribuzione in questi giorni presso la ex Caserma degli Allievi Carabinieri. “Da noi -osserva don Nicola De Blasio, direttore della Caritas- si rivolgono quelli che hanno perso il lavoro, i precari, chi faceva il commesso, il cameriere , chi viveva alla giornata ,con tanti piccoli mestieri, anche al nero, ma anche tanti che mai avrebbero immaginato di aver bisogno di un pacco di pasta o di una bottiglia d’olio. Accanto alla povertà materiale, ci sono quella sanitaria e quella educativa. Ci sono famiglie che non possono permettersi un computer e poi zone dove le connessioni sono lente o inesistenti. Insomma non siamo tutti sulla stessa barca. Alla Caritas distribuiamo circa 100 pacchi al giorno con pranzo e cena”.
Stanchi dei divieti, alcuni ristoratori beneventani hanno deciso di riaprire subito dopo Pasqua, sfidando i decreti del governo. La “ribellione” è capeggiata da Paolo Bianchini e Mario Carfora, che rappresentano il Mio (Movimento Imprese Ospitalità). “Siamo praticamente chiusi da un anno -denunciano- non possiamo più sostenere i costi. Non ci sono indennizzi ragionevoli. Riapriremo a pranzo e a cena. Non si tratta di una provocazione, ma di una questione di sopravvivenza”. Gli alti fitti strozzano tanti esercenti del Corso Garibaldi e di Via Traiano ormai deserta. “Il proprietario del mio locale -ci racconta il titolare di un bar- mi ha fatto uno sconto mensile di 100 euro per il periodo del virus. Ma poi quando tutto sarà finito rivuole tutto indietro compresi gli arretrati. Si può andare avanti così?”. “Non basta -osserva Bruno Pedretti, negoziante di Via Cocchia- dilazionare di qualche mese le tasse. Bisognerebbe aspettare prima la ripresa”.
Tra le tante storie emblematiche del periodo difficile che attanaglia l’economia c’è quella di un imprenditore sannita, che ha avuto il coraggio di denunciare i ricatti criminali. “Aveva una bella attività-afferma don Nicola- ma ad un certo punto non poteva più pagare i fornitori ed è incappato nelle maglie della delinquenza, che dispone di moneta liquida. Per fortuna l’imprenditore si è ribellato, denunciando tutto. Con lo sportello antiusura e antiracket l’abbiamo aiutato a pagare le bollette ed è riuscito così a tamponare la situazione. Ora la magistratura farà il suo corso. Ma la burocrazia non aiuta”.
Con l’arrivo della pandemia molti hanno chiuso i battenti. Tra questi il falegname Salvatore Bibbò, apprezzato artigiano del legno, che una volta operava presso Piazza Dogana, lavorando per le chiese ed artisti importanti del teatro, come Luigi De Filippo. Nel denso buio della crisi, per fortuna si accendono tante luci di solidarietà. Per aiutare le famiglie bisognose ed in particolare i bambini si rimbocca le maniche il Centro Solidale Bene Attivi, che distribuisce generi alimentari ed uova pasquali, grazie anche ad un protocollo d’intesa con la Coldiretti di Benevento. Molto attiva anche l’associazione “Il Tulipano Bianco”.
Con la Caritas collaborano tanti giovani volontari. “Abbiamo dei ragazzi dell’Istituto Alberghiero -ricorda don Nicola- che vengono a preparare i pasti da noi, altri aggiustano i computer e aiutano nella didattica a distanza. Ma l’esempio più bello è quello dei rugbisti, che con la loro forza confezionano e trasportano i pacchi alimentari presso la Caserma Pepicelli. Molti stanno prendendo coscienza che solo con la solidarietà possiamo uscirne fuori, anche perché la gente sta diventando sempre più arrabbiata. I giovani che hanno interrotto la messa avranno sbagliato forse modi e tempi, ma quello è un segnale da non lasciare cadere, perché ci dicono che possiamo superare questo brutto momento solo tutti insieme”.
Continuando nel segno della coralità che contagiò l’anno scorso tutta la città e l’Italia intera, quando un gruppo di giovani musicisti avviò la più originale “jam session della storia”, per stemperare l’ansia del momento. Come nacque quel formidabile e coinvolgente esperimento? Lo abbiamo chiesto ad uno dei promotori, che ancora non riesce a spiegarsi il successo di quella iniziativa, anche se è molto orgoglioso di aver alimentato una sorta di riscossa sociale, che ha lasciato il segno nella lunga stagione del coronavirus.
Era il 12 marzo, da pochi giorni era scattato il primo lockdown, quando, in una traversa di Viale Mellusi, alcuni giovani pensarono di mettersi a suonare una tammurriata, eseguendo la canzone popolare “Vesuvio del gruppo operaio E’ Zezi, che racconta come la sorte degli uomini sia legata alla vita di un vulcano, alla sua lava e ai suoi movimenti imprevedibili. Proprio come l’apparire della pandemia. Partirono così le musiche e i canti sui balconi, che poi si diffusero in tutta Italia. “Eravamo tutti preoccupati -spiega Alessandro Paolo Lombardo, giornalista e tamburellista- quando invitai la mia amica Erica, che voleva tornarsene al paese, a tirare fuori la tammorra. Poi chiamammo l’altra dirimpettaia, Roberta, che si presentò con le castagnette”.
“Cominciammo a cantare -continua Lombardo- spinti dal desiderio di rompere l’angoscia e l’isolamento in cui eravamo stati costretti. L’esibizione fu filmata e diffusa dall’amica Marina. Il video fece il giro dei social e delle televisioni in pochi minuti. Finimmo nel programma pomeridiano della Rai, “La Vita in diretta”, alla Bbc Russa, mi contattò la corrispondente del New Yorker. Lo condivise Fiorella Mannoia. Dopo qualche ora, presso il nostro palazzo , accorse pure il sindaco di Benevento, per rallegrarsi con noi. Gli chiesi una città più verde”. La performance rappresentò la speranza di una rapida ripartenza e al tempo stesso il simbolo di una socialità alternativa possibile, soprattutto per le metropoli, dove spesso non si conosce il vicino di casa.
”Non si tratta del solito evento folcloristico italiano- conclude Lombardo- ma fu un modo per farci sentire contro le restrizioni. Questa idea sprigionò un’energia nascosta. Richiamò tutto il vicinato, che partecipò con gli strumenti che aveva, chi con pentole, chi con coperchi. Intorno a noi sembrò di sentire una grande orchestra, che aspettava solo il segnale per partire. Ma a distanza di un anno tutto è cambiato, la gente è stanca. E’ tempo che la musica ritorni in strada, che si ricominci a vivere. L’attesa è stata troppo lunga”.
Antonio Esposito – giornalista