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“Paolo Pettorossi non si è suicidato!”

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La Rete Sociale presenta un esposto in Procura: “Paolo Pettorossi, 51enne precipitato dalla finestra del Rummo, non si è suicidato…”

100 foto messe sul blog www.ilenzuolibianchi.com sollevano interrogativi sulla sua morte

Abbiamo spesso criticato i giornalisti che pubblicano le generalità di una persona morta suicida. Nel caso di Paolo Pettorossi, invece, sentiamo il dovere di farne il nome e raccontarne la storia, per un duplice motivo: per non tradirne la memoria liquidando il suo volo da un reparto ospedaliero come “il gesto estremo di un pazzo”; e perché quella di Paolo è una storia esemplare di ciò che a Benevento può accadere a chiunque finisca vittima di un’organizzazione sanitaria in cui, se non si perde la vita, spesso si perde la dignità dopo troppe iniezioni di sofferenza gratuita. Una perdita di dignità e di identità non solo per il paziente, ma anche per chi lo accudisce, che sovente smarrisce l’obiettivo del proprio lavoro: alleviare il dolore della persona di cui deve occuparsi. Per difendere, dunque, sia i diritti dei sofferenti psichici che di quegli operatori della Salute Mentale che vogliono occuparsene con rispetto e professionalità, abbiamo presentato un esposto in Procura: perché solo facendo emergere la verità si potrà avviare il cambiamento indispensabile per evitare nuove tragedie.

Paolo amava la vita e non ha mai mostrato intenzioni suicidarie. Del resto, se così non fosse, gli psichiatri che gli hanno consentito di vivere per oltre 10 anni in case-famiglia al sesto e al settimo piano, sarebbero degli irresponsabili. Anche Don Nicola De Blasio, celebrando le esequie di Paolo, ha ricordato la sua voglia travolgente di vivere e di partecipare alla vita degli altri: parole supportate da oltre 100 fotografie proiettate in chiesa su un grande schermo. Oggi queste 100 foto sono pubblicate anche sul nostro blog ( www.ilenzuolibianchi.com ) perché offrono la prova dell’impegno di Paolo in un progetto riabilitativo del quale era protagonista da agosto 2014 e i cui risultati sarebbero stati impossibili senza amare la vita e senza una rete di medici e volontari che hanno creduto nelle sue possibilità di recupero.

Ma c’è di più: oggi queste 100 fotografie – scattate e “chattate” per caso o per gioco – insieme ad altri documenti e testimonianze, potrebbero rappresentare indizi utili per trovare la spiegazione ad una morte troppo frettolosamente definita “inspiegabile” o conseguenza del gesto di “uno che non ci stava con la testa”. Il successo della riabilitazione di Paolo, infatti, è evidente anche nelle ultime foto: in quelle scattate il 30 novembre all’inaugurazione della Cittadella della Caritas, che lo riprendono felice ed elegante protagonista della sua prima mostra di quadri; e nel selfie scattato 4 giorni dopo, al momento del suo ricovero nel Servizio Psichiatrico di Diagnosi e Cura del Rummo. In quest’ultima immagine Paolo appare in buona salute, sorridente, tranquillo e fiducioso mentre viene ricoverato in un reparto che generalmente è riservato a persone con grave e acuto scompenso psichico e al quale, dunque, si fa ricorso solo in circostanze eccezionali e per un tempo limitato. E’ a partire da questo momento, invece, che inizia per Paolo Pettorossi un oscuro percorso durato 33 giorni e conclusosi in tragedia: entrato in ospedale il 4 dicembre 2015 attraverso la porta del Servizio Psichiatrico, Paolo viene spostato dopo un mese – il 5 gennaio 2016 – nel reparto di Infettivologia dal quale esce due giorni dopo, il 7 gennaio, volando da una finestra.

E‘ nei luoghi in cui Paolo ha vissuto i suoi ultimi 33 giorni di vita, quindi, che va cercata la spiegazione di quel salto mortale: la cui spinta – suicidaria, delirante o accidentale – è maturata fra mura ospedaliere che dovevano essere per lui un “ambiente protetto”. Così nasce il nostro esposto agli inquirenti che va inteso, dunque, come il contributo di persone bene informate sui fatti, che hanno seguito Paolo fino al suo ultimo giorno di vita. Ma anche come contributo di persone non soggette al conflitto di interesse che potrebbe pesare, invece, sui testimoni “dipendenti” delle strutture sanitarie sulle quali, oggi, pesano i maggiori sospetti di “culpa in vigilando” per la morte del paziente affidatogli.

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